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Carosello

Carosello in TV, fotografia di Ando Gilardi 1960 circa ©Fototeca Gilardi

Il 3 febbraio 1957 prendeva avvio sulla prima rete RAI, Carosello.

Questo contenitore che noi “boomers” ricordiamo con tanta tenerezza, non era altro che un breve programma che raccoglieva – in una sola fascia oraria – tutta la pubblicità che la RAI permetteva di trasmettere nella neonata TV.
Cioè, ben poca.

Realizzato dalla Sacis, la società che produceva la pubblicità della RAI, Carosello durava una decina di minuti e andava in onda dopo il Tg della sera.
Segnava un momento di allegria o di “racconto” dopo il quale i bimbi più piccoli andavano a letto, come guidati da un rituale collettivo.

Si componeva di 4 o 5 “corti” in stile cinematografico o di animazione, firmati da grandi sceneggiatori e registi, e interpretati dai più celebri attori e conduttori dell’epoca.
Ma attenzione: all’interno del piccolo capolavoro d’arte, il prodotto pubblicitario non doveva essere minimamente citato. Lo slogan e la marca erano relegati in testa o in coda al breve “film” e i testimonial non dovevano citarli per più di 30 secondi.

Le regole della programmazione pubblicitaria di Carosello erano tanto stringenti da apparire, oggi, quasi ridicole. Erano dettate dalla morale dell’epoca, ma anche da un attento controllo da parte dello Stato sulle modalità di approccio che le aziende dovevano avere nei confronti dei telespettatori.

Noi italiani, totalmente sprovveduti di fronte a questo nuovo potentissimo mezzo di comunicazione, eravamo – per così dire – tutelati dalla RAI dall’eccesso di esposizione al marketing.
Tuttavia il controllo si estendeva anche ai contenuti, era infatti tassativamente vietato rappresentare scene “volutamente volgari, truci, ripugnanti, terrificanti”. O che alludessero a “disonestà, vizio o delitto in maniera atta a suscitare compiacenza o imitazione”.

Paradossalmente proprio queste limitazioni hanno impresso in modo indelebile nella nostra memoria i primi slogan della TV italiana.
Quasi nessuno si ricorda i piccoli recitati, magari a puntate, che precedevano il tormentone pubblicitario, spesso umoristico o con un velato intento pedagogico.
Nonostante le mille precauzioni – o molto più probabilmente grazie a esse – lo slogan ci si fissava nella mente come un chiodo.

Quando negli anni Ottanta la pubblicità ci si rovesciò addosso come una slavina, dopo un periodo di divertimento in cui gli slogan passavano di bocca in bocca, si arrivò a una saturazione. E nel giro di poco tempo a un infastidito disinteresse.
Da lì in poi la strada era segnata.

Dai blocchi pubblicitari di un quarto d’ora (ogni venti minuti di film), si passò alle televendite. E dalle televendite si arrivò allo sdoganamento della pubblicità occulta in ogni programma.

Senza limiti di sorta, il vociare degli sponsor era ormai diventato un confuso, persistente e arrogante grido di sottofondo.
Ma era ormai giunta l’epoca di internet che avrebbe cambiato definitivamente in mondo della comunicazione pubblicitaria.

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