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Imprenditori illuminati

Imprenditori illuminati: istituzione nido aziendale

Troppo spesso a imprenditori e imprenditrici famosi capita di esternare posizioni discutibili nei confronti dei lavoratori.

L’ultimo caso è quello della stilista Elisabetta Franchi che ha avuto parole piuttosto spiacevoli in merito ai criteri di assunzione del personale femminile.

La media e piccola impresa italiana è in difficoltà da tempo sul fronte delle assunzioni.

Ma non si può dire lo stesso dei grandi gruppi e dei marchi solidi che fatturano milioni di euro.

In questo tipo di realtà la classe lavoratrice troppo spesso diventa l’unico soggetto sul quale far gravare i costi di un esponenziale incremento degli utili.

Sono ormai tre decenni che, di fronte a un mercato famelico, l’unica risposta sembra essere l’erosione progressiva dei diritti dei lavoratori.

Tra le opzioni di possibile risoluzione di una crisi aziendale non rientra mai, per esempio, la riduzione del gap tra gli stipendi dei manager e quelli di operai e impiegati.
Gap che è diventato invece scandalosamente grande.

Così, quando un’imprenditrice che fattura miliardi mostra di apprezzare che le sue dipendenti rientrino al lavoro a tre giorni dal parto, alcuni insorgono, ma molti altri non si stupiscono.
Anzi la difendono.

Probabilmente dimenticando che responsabilità, mansioni, libertà di azione e reddito di una dirigente del suo livello, non hanno niente da spartire con quelle di una sua impiegata.

E dimenticando soprattutto che la legge che difende il congedo di maternità, non è un capriccio o uno sfizio del legislatore.

È una conquista che più di un secolo fa vide in prima linea proprio una classe di imprenditori illuminati, consapevoli che un lavoratore felice e tutelato, lavora meglio.

Perché, anche senza avere un’intelligenza emotiva e uno spirito umanitario, è facile per chiunque constatare che la produttività è inversamente proporzionale al livello di schiavitù.

È nota l’attenzione che Adriano Olivetti ebbe nei confronti dei suoi operai, di cui conosceva la fatica e il rischio di alienazione, avendolo provato in prima persona.

Pur non obbligato da leggi sulla sicurezza sul lavoro – che sarebbero arrivate decenni più tardi – forniva assistenza medica ai suoi dipendenti.

Lungi dal pretendere un rientro a tre giorni dal parto, riconosceva un permesso retribuito di nove mesi alle madri. A stipendio pieno.

Organizzò un sistema di pullman per i turnisti. E mise a disposizione dei suoi dipendenti mense, asili, biblioteche e corsi di formazione, con rara lungimiranza.

Nonostante questa scriteriata generosità, la sua azienda divenne leader del mercato mondiale.

Si racconta che durante una crisi nei primi anni Cinquanta, quando alcuni dirigenti gli consigliarono di licenziare 500 operai, Olivetti licenziò invece quei manager.

Poi raddoppiò i venditori e abbassò il prezzo delle macchine in commercio, tagliando solo temporaneamente l’orario agli operai. Così risollevò l’azienda.

Accusato di ragionare e agire in modo utopico rispose: “il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare”.

Ma Olivetti non fu l’unico imprenditore capace di scegliere la via apparentemente più difficile per gestire un’azienda.

Anche Ettore Bugatti mise in piedi un’impresa utopica in cui gli operai prosperavano e lavoravano con passione, senza essere sfruttati.
Un’azienda in cui fare gli straordinari era un piacere, non una nevrosi; e neppure un tacito patto per essere stimati come dipendenti.

Luisa Spagnoli, è noto a tutti, mise in piedi un piccolo laboratorio dolciario in Umbria che in breve tempo divenne la notissima industria Perugina, produttrice dei “Baci”.

Convinta che il lavoro fosse la condizione primaria per la libertà femminile, aveva creato un nido aziendale perché le operaie con bambini potessero lavorare con più serenità.

Anche in questo caso una parte consistente degli utili della Perugina andò a migliorare le condizioni dei dipendenti.
Luisa Spagnoli mise infatti a disposizione piscine riscaldate all’interno degli stabilimenti e fece costruire delle casette a schiera destinate alle famiglie degli operai.

Inoltre li sostenne con regali e consistenti donazioni in tempo di guerra.

Quando oggi un’imprenditrice si trova a dichiarare che preferisce assumere donne sopra gli “anta”, la prima reazione è di stupito entusiasmo.

In un periodo in cui anche le persone sono affette da rapida obsolescenza, la sua sembra un’opera meritoria.

Purtroppo il motivo di questa preferenza è l’impossibilità di divorare il tempo di una donna più giovane, perché ancora impegnata con figli piccoli. Allora la faccenda è ben diversa.

Oggi le scuse e le rettifiche fioccano, ma cosa cambia?

Forse la signora ha cambiato posizione?

È forse diventata consapevole che è folle pretendere la sua stessa devozione al lavoro da parte di dipendenti che hanno un trentesimo (o magari un trecentesimo) del suo stipendio?

Ha forse compreso che la totale rinuncia alla vita privata è una richiesta eccessiva che un datore di lavoro fa a un operaio o a un impiegato?

Da domani investirà una quota maggiore di utili per lasciare alle lavoratrici del tempo libero in più, unico vero privilegio di un dipendente?

O magari agevolerà il rientro al lavoro post-maternità con adeguati spazi per allattamento e nidi di ottocentesca memoria?

Temo che ci vorrebbe una mentalità completamente diversa per andare in quella direzione.

Ma continuiamo a sperare che il dibattito nato in questi giorni porti tutti a nuove – e più umane – riflessioni.

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