In un’antica raccolta di rimedi farmacologici dal titolo “Antidotarium”, il medico, alchimista e filosofo persiano Rhazés (Muḥammad ibn Zakarīyā Abū Bakr al Rāzī 865-925) riporta la “mumia”: il più orrendo dei medicamenti.
Questa misteriosa sostanza – che per secoli verrà ritenuta un rimedio miracoloso – prendeva il nome da una specie di bitume che, nell’antichità, si estraeva dal sottosuolo per praticare l’imbalsamazione.
Insieme al liquame che colava dai cadaveri così imbalsamati, formava un composto simile alla pece. Una massa nerastra, che a volte si presentava in pezzi secchi, duri e lucenti e costituiva il farmaco più macabro di tutti i tempi.
La mutua connessione tra vita e morte che si ritrova spesso in diverse epoche e culture.
Si credeva che la “vera mumia” si estraesse soltanto da una grotta scoperta ai tempi del mitologico re persiano Farīdūn.
Droga rara e costosissima, era usata per guarire con portentosa rapidità tanto le fratture, quanto le gravi lesioni degli organi interni.
Il bitume induriva per effetto della luce e questa proprietà, oltre che per fornire sostegno alle fratture, fu usata nella preparazione di emulsioni fotografiche.
Il celebre naturalista e medico tedesco Engelbert Kaempfer, nel XVII secolo, durante il suo viaggio in Persia venne a conoscenza della mitica grotta, da tempo perduta e recentemente riscoperta.
Affascinato dal leggendario medicamento riportò fedelmente le modalità di estrazione.
La sorgente della “vera mumia” era una specie di pozzo chiuso con un grande masso fissato e sigillato, impossibile da muovere senza ordine del re.
Una volta all’anno si faceva scendere un uomo in questo pozzo per raccogliere il bitume che trasudava dalle pareti.
E poiché questa sostanza era pochissima e aveva un enorme valore, si prendevano tutte le precauzioni affinché non ne fosse rubata neppure la più piccola quantità.
L’uomo veniva denudato e doveva scendere nel pozzo con la bocca piena di acqua. Uscito fuori, doveva sputare l’acqua in un piatto d’argento e infine sottoporsi a un’ispezione corporale.
Gli arabi la introdussero in Europa dopo le crociate, vendendola a caro prezzo soprattutto come tonico del sistema nervoso, come depurativo del sangue e contro l’anemia.
Il gusto dell’orrido
La mumia divenne in breve tempo il rimedio preferito dei ceti più alti, trasformandosi in uno status symbol.
Col tempo, oltre quella nera già descritta, si distinsero altre varietà di mumie. Quella bianca proveniente da cadaveri spontaneamente mummificati e quella proveniente da fanciulle morte vergini e sane, che era considerata la migliore.
Ai tempi di Luigi XIV la mumia era utilizzata come rimedio per l’amenorrea, per l’asma, la tisi e figurava come componente di molte polveri medicamentose.
Anche Pietro Andrea Matthioli nei suoi “discorsi” ne illustra le proprietà e mette in guardia il lettore dall’uso del termine “mumia” per definire un corpo imbalsamato.
Ovviamente la forte domanda e l’alto costo indussero alcuni imbroglioni e ciarlatani a produrne di “falsa” utilizzando i cadaveri di criminali o vittime di peste.
Da un’inchiesta fatta al Cairo nel 1462 si sa che questa mumia falsificata era venduta ai francesi a 25 scudi d’oro al quintale.
Tuttavia fino al XVIII secolo rimase uno degli ingredienti principali dei preparati farmacologici. Figurava soprattutto negli unguenti contro le cadute e faceva capolino anche nelle preparazioni di Cagliostro.
Ma dopo sempre più frequenti casi di sofisticazioni, il commercio di questo orrido “farmaco” si ridusse fino a scomparire del tutto.
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