Tra le piante “magiche” più conosciute della storia, senza dubbio quella maggiormente famosa è la belladonna (Atropa belladonna).
Il suo nome botanico, Atropa, deriva da Àtropo, il nome della divinità greca che recideva con una cesoia il “ filo della vita ” , decretando la morte degli umani.
Àtropo, infatti, in greco significa “l’inevitabile”.
“Belladonna” invece è un appellativo aggiunto al nome della pianta, in epoca rinascimentale. Deriva dall’utilizzo che le donne ne facevano, sotto forma di collirio, per dilatare le pupille e risultare più seducenti.
Si dice che anche Cleopatra ne avesse fatto uso, per esercitare maggior potere sugli uomini.
Insieme ad altre Solanacee non commestibili, come il giusquiamo nero, lo stramonio e la mandragora, la belladonna era tra le principali erbe che componevano il cosiddetto “unguento delle streghe”.
Secondo racconti e leggende, prima del Sabba le streghe si spogliavano e si cospargevano il corpo con questo unguento magico a base di grasso di maiale ed erbe.
Poi a cavallo di una scopa, anch’essa cosparsa di unguento, spiccavano il volo. Il magico impasto poteva essere spalmato anche su altri oggetti come panche, sgabelli o bastoni affinché portassero in volo la strega, al luogo desiderato.
Tutte le erbe tradizionalmente usate per l’unguento delle streghe, altro non sono che piante tossiche, ricche di sostanze come l’atropina, dagli effetti allucinogeni .
Venivano impiegate sia nella cura tradizionale, sia in antichi rituali pagani sopravvissuti alla repressione cristiana, bollati facilmente come “satanici”.
Per molti secoli la belladonna era stata utilizzata per provocare visioni e stati di trance in stregoni, sciamani e veggenti.
Gli alcaloidi contenuti in essa hanno effetto sul sistema nervoso centrale e, al pari di altre piante dall’azione psicoattiva , era usata dagli sciamani e dalle sacerdotesse per vedere nel passato e per prevedere il futuro.
Queste piante, oltre a dare allucinazioni e offuscamento della coscienza, provocano anche un sonno popolato da incubi.
Si tratta di uno stato di torpore psichico, con amnesie e deliri.
Quando cessa l’effetto, il soggetto rimane a lungo in uno stato di forte confusione mentale che lo porta a colmare le amnesie con racconti di fantasia basati sulle allucinazioni.
L’uso di queste piante a scopo anestetico, spesso in combinazione con l’oppio, era già diffuso nell’impero romano e conosciuto in ambiente islamico.
Soltanto nel XIX secolo gli alcaloidi derivati dalle piante vennero sostituiti dall’etere, dal cloroformio e da altri anestetici moderni.
Tuttavia la belladonna ebbe occasione di mostrarsi e stupire in tempi più recenti.
Precisamente alla fine della prima guerra mondiale, quando l’epidemia di spagnola si abbatté sul continente europeo diffondendosi nelle trincee.
Mentre la spagnola dilagava e mieteva vittime, un’altra malattia misteriosa iniziò a diffondersi: l’encefalite letargica.
Gli effetti erano devastanti: il corpo si irrigidiva, il volto perdeva mobilità, lo sguardo diveniva assente. Ogni movimento diveniva faticoso e lentissimo.
Il malato camminava a piccoli passi, talvolta restava immobile, bloccato con un gesto a mezz’aria.
Ebbene, nel momento in cui si manifestò per la prima volta, il mondo scientifico si scoprì incapace di affrontarla.
Fu invece un oscuro erborista bulgaro, Ivan Raev, a trovare un cura basata su una pianta letale: l’Atropa belladonna.
Raev, erede ideale degli antichi guaritori pagani, aveva intuito che gli alcaloidi estratti dalle radici dell’Atropa belladonna potevano rappresentare un rimedio efficace per riscuotere dal torpore alcuni pazienti affetti da encefalite letargica.
Nel giro di poco tempo aveva ottenuto delle guarigioni sorprendenti, tanto da conquistarsi la piena fiducia e il favore della Regina Elena di Savoia.
Fu proprio la regina ad esercitare la propria influenza affinché il rimedio di Raev divenisse ufficialmente uno dei protocolli ospedalieri italiani.
Questo salvò la vita a diversi pazienti “letargici” prima che l’epidemia di encefalite scomparisse, misteriosamente come era comparsa.
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