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Vivendo … si lasciano tracce

Gli antichi lo immaginavano con in mano una torcia capovolta, simbolo della vita che si estingue, oppure una farfalla, simbolo dell’anima, o ancora con un fiore di papavero che allude all’oblio del sonno eterno. Nel mito greco la morte, Thànatos, è un’entità maschile nata per partenogenesi da Nyx (la notte). Rappresentato spesso come un fanciullo alato, Thànatos ha un fratello gemello che lo accompagna (Hypnos, il Sonno) ed altri fratelli e sorelle che gravano sull’umanità: Moros (il destino inevitabile), Ker (la morte violenta), Eris (dea della discordia, “signora del dolore”), Nemesi (la vendetta).
A volte Atropo, la Moira che recide il filo della vita, è sovrapposta alla figura di Thànatos, così come Ermes psicopompo, che guida le anime nell’Ade.
Il poeta Esiodo descrive Thànatos come una divinità terribile, mai toccata dai raggi del sole, con un cuore di ferro e l’anima di bronzo, odiata dagli stessi dei immortali.
Per gli antichi greci la morte è un momento di passaggio dell’anima nel mondo delle ombre, un luogo triste, non rischiarato dalla luce solare, in cui non sono previsti premi o punizioni in base al merito in vita: tutte le anime si aggirano mestamente nella prateria degli Asfodeli (cioè “la valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”: l’anima). Il loro unico piacere è bere il sangue delle offerte dei vivi.
È così che Ulisse, uno dei pochissimi eroi a visitare l’Ade da vivo, invoca lo spirito di Tiresia e dei guerrieri achei morti, che rimpiangono il mondo terreno.
Nell’Odissea l’ombra di Achille dice ad Ulisse: “Non consolarmi della morte. Preferirei piuttosto fare il servo d’un bifolco che campasse giorno per giorno di uno scarso e misero cibo, piuttosto che essere sovrano nel regno dei defunti.
L’unica scintilla di immortalità, l’unica consolazione, è legata alla memoria conservata dai vivi e alle tracce di eroismo o saggezza lasciate nel mondo da chi non c’è più. Per questo motivo la tensione verso il giusto e verso la realizzazione piena in questa vita, senza rimandare ad un “aldilà“, era tanto importante nell’antica Grecia.
Il confine tra il mondo dei vivi e il regno delle ombre nelle credenze degli antichi greci è segnato dalle sacre acque della palude Stigia (o secondo alcune varianti del mito dal fiume Acheronte). Qui Caronte traghetta sull’altra sponda le anime, ma solo a due condizioni: il defunto deve aver ricevuto regolare sepoltura e il tragitto deve essere pagato, per questo sotto la lingua del morto, veniva posta una moneta (l’obolo).
Il mito racconta che solo un uomo, particolarmente scaltro, riuscì a prendersi gioco della Morte: Sisifo, primo re di Corinto.
Sembra che Sisifo, avesse rivelato dove Zeus (in preda ai soliti furori erotici) teneva nascosta la ninfa Egina, figlia del dio fluviale Asopo. Per la gratitudine di essere stata salvata la ninfa premiò Sisifo con una fonte per Corinto, città in cui l’acqua scarseggiava, ma Zeus inferocito mandò immediatamente Thànatos a prelevarlo.
Quando Thànatos giunse a casa di Sisifo, questi lo fece ubriacare e lo legò con catene, imprigionandolo, così la morte scomparve dal mondo.
Le guerre non avevano più senso perché in battaglia non moriva più nessuno e Ares, forzatamente disoccupato e non certo sereno, piombò su Sisifo e, liberato Thànatos, condusse il malcapitato Sisifo nel Tartaro. Qui il re di Corinto supplicò Ade di rimandarlo indietro per dire alla moglie di seppellire il suo corpo, poiché un morto non si può considerare proprio morto se non dopo che siano stati compiuti i riti del passaggio, mostrandosi talmente addolorato e afflitto che il signore degli Inferi, s’impietosì e gli consentì di tornare brevemente in vita per sistemare le cose. Ovviamente Sisifo si guardò bene dal tornare.

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