L’incomprensibile passione di mio figlio per gli scacchi e il suo trionfante grido “Scacco matto!” durante l’ultima partita, mi hanno indotto a cercare di capire con chi dovessi prendermela per l’invenzione di questo gioco strategico in cui non riesco a raccapezzarmi.
La ricerca di un colpevole, oltre a trasportarmi in un mondo leggendario in cui gli scacchi vengono inventati una volta da un bramino, un’altra da un principe, un’altra ancora da un mercante (sempre allo scopo di dimostrare la necessità di sacrificare delle vite preziose in battaglia) mi ha anche rallegrato con un inaspettato elenco di arabismi entrati nell’uso quotidiano della nostra lingua.
Sì, perché l’esclamazione “Scacco matto” deriva dall’arabo shāh māt, la frase conclusiva della partita che vuol dire “lo scià è morto”, ma anche il termine alfiere è mutuato dallo spagnolo alférez, che a sua volta viene dal vocabolo arabo al-fīl “elefante“.
Gli arabismi sono entrati nella nostra lingua standard in epoche diverse, attraverso il governo diretto degli arabi o all’interno delle antiche università dove si elaboravano testi scientifici e filosofici provenienti dal mondo arabo, ma nella maggioranza dei casi la “contaminazione” si deve agli intensi scambi commerciali con le nostre città marinare, infatti spesso gli arabismi sono termini della marineria e del commercio, nomi di piante, frutti o elementi del lessico tecnico, scientifico e matematico.
Parole arabe ad esempio sono libeccio, scirocco e zefiro, ma anche il nome dei punti astronomici indispensabili alla navigazione: azimut, nadir e zenit.
Nel campo delle scienze, oltre alle parole “chimica”, che deriva da al-kimiya¯’ (pietra filosofale) e “algebra” (introdotta in Occidente da Fibonacci e risalente alla complessa definizione araba ilm al-gÍabr wa al-muqa¯bala, cioè scienza delle riduzioni e comparazione), abbiamo anche elisir (al-iksir, parte essenziale di una materia), alambicco (al-anbiq, tazza), alcool (da kuhòul una polvere cosmetica finissima, termine poi “stravolto” da Paracelso per indicare lo spirito sottile di ogni materia) e amalgama.
Dalla celebre scuola medica salernitana uscì e si diffuse la parola araba taccuino da taquîm, che significa “ordinata disposizione”.
Ma l’elenco delle voci arabe di uso comune sarebbe lunghissimo: oltre ad almanacco (dall’arabo al-mana¯hŠ, clima, calendario), cifra e zero (entrambi derivati dall’arabo sòifr, che significa vuoto), abbiamo adottato termini culinari come alchermes (al-quirmiz, cremisi, scarlatto), sciroppo (da sharab, bevanda), marzapane, zafferano, zagara, zibibbo, arancio, limone, albicocca (da al-barqu¯q, che significa prugne, susine), ma anche tutta una serie di voci relative a traffici e commerci come darsena, fondaco, arsenale, dogana, gabella, magazzino, rischio, bazar, tara e tariffa, e poi quintale, risma, zecca, zecchino e anche carovana.
In campo musicale sono arabe parole come liuto, nacchera, tamburo, mentre nel lessico militare “aguzzino” deriverebbe dall’arabo al-wazīr, originariamente significante ministro, e “ascaro” verrebbe direttamente dall’arabo ‘askarī , cioè soldato.
Ma l’arabismo che più mi ha divertito, anche se per ora l’origine è solo un ipotesi, sarebbe quello dell’ormai onnipresente intercalare “scialla! (… rilassati!)” nelle conversazioni dei nostri ragazzi: potrebbe derivare nientemeno che da Inshallah, formula di saluto e devozione islamica che significa “se Dio lo vuole”.
Scialla mà! … vincerai la prossima volta.
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