La figura del maestro, storicamente, inizia ad acquistare rilevanza in Italia dopo l’Unità, con la creazione della scuola dell’obbligo e con la volontà politica di diffondere una lingua nazionale e di combattere l’analfabetismo endemico.
Se fino al XVIII secolo l’insegnante (a quei tempi privato) era sovente un religioso al servizio dei ricchi rampolli della classe dirigente, alla fine dell’Ottocento si delinea la figura del maestro elementare (e della “maestrina”) come elemento di raccordo tra le élite e la massa popolare.
Portatore di una cultura e di un prestigio di gran peso nei paesi e nelle periferie, l’insegnante a quel tempo è investito di una missione politica e umana di rilievo, ma raramente assimilato ai vertici del sapere.
Se si scorrono i romanzi ottocenteschi ci si imbatte spesso i questi “pionieri” dell’integrazione e del multiculturalismo, figure non più caricaturali come nel Settecento, ma spesso solitarie e tragiche, che si misurano con la povertà e la violenza dei ceti più bassi. Sono i primi a vivere sulla loro pelle la contraddizione di un paese che vuole i poveri “istruiti”, ma pronamente “al loro posto”.
Non sono più precettori, scarsamente remunerati da nobili che li tiranneggiano, ma funzionari dello Stato sulle cui spalle si regge uno dei pilastri dell’Italia post-unitaria (la scuola) e sotto il cui sguardo si viene formando il paese. Ma la vera rivoluzione è quella che subisce l’immagine femminile attraverso la figura della maestra, rappresentata nella “letteratura scolastica” di fine ottocento come una lavoratrice intellettuale, autonoma, spesso sola, nubile, o vittima del conformismo dell’epoca.
Non è solo “Cuore” (1886), a riportare alla mente i primi ritratti di maestri “moderni”. Molti sono gli autori che a fine ottocento si misurano con questo nuovo spaccato di realtà italiana: Carlo Dossi con “La mestrina inglese” (1879), Matilde Serao con “Scuola Normale Femminile” (1886), Giovanni Verga con “Il maestro dei ragazzi” (1866), Luigi Pirandello con “La maestrina di Boccarmè” (1899) e lo stesso De Amicis, oltre a “Cuore” pubblica “Il romanzo di un maestro”, ”Amore e Ginnastica” e “La maestrina degli operai”.
Ripensando alla funzione “integratrice” degli insegnanti in un’Italia dai mille dialetti e dalle mille tradizioni regionali, non si può che riconoscere che negli ultimi duecento anni la storia non ha fatto altro che un giro su se stessa, per riproporci gli stessi problemi, ad un livello più ampio: i bambini che oggi entrano alla scuola elementare sono sempre più eterogenei dal punto di vista culturale e geografico, inoltre si proclama a gran voce che la scuola è il luogo primario della formazione, ma da decenni le vengono sottratte risorse.
Ora non si può più affermare, come D’Azeglio, “fatta l’Italia, vanno fatti gli italiani”, ma “fatta la globalizzazione” bisogna formare “cittadini del mondo”.
Adesso siamo alle soglie dell’ennesima sedicente “rivoluzione” (riforma) scolastica simboleggiata dal termine “meritocrazia per gli insegnanti” che, in soldoni, vuol dire solo che il meccanismo dei crediti scolastici degli studenti viene esteso ai professori.
Ma se la preparazione scolastica non sembra essere aumentata con l’introduzione dei crediti, nulla fa sperare che il merito degli insegnanti possa avvalersi proficuamente dello stesso meccanismo.
Se ripenso ad alcuni miei insegnanti del liceo, alla loro immensa cultura, alla loro umanità mi viene quasi da ridere. Chi potrebbe valutare le persone che erano e ciò che hanno trasmesso?
Se penso invece ad altri, rari in verità, totalmente incapaci di relazionarsi con degli adolescenti, di scarso spessore umano, mentalmente limitati e didatticamente impreparati, mi domando quale “test” potrebbe mai misurarne l’inadeguatezza e con quali conseguenze?
C’è solo da sperare che non permanga nella scuola futura la secolare contraddizione che vuole, ipocritamente, i poveri “istruiti”, ma pronamente “al loro posto”.
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