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Pizzi, trine e merletti

lavoro pizzi al tombolo, Abruzzo 1966 circa - elaborazione ©FototecaGilardi

Non è affatto strano che l’arte del pizzo nel corso della storia, abbia toccato vette eccelse soprattutto nelle città di mare. Accostare i delicati intrecci di fili sospesi nel vuoto, alle reti da pesca e alle alghe marine, è piuttosto naturale e il legame con l’arte di fare i nodi, notoriamente patrimonio dei naviganti, ad esempio si ritrova pari pari nella tecnica del macramé, un pizzo di origine araba creato intrecciando e annodando fili con le dita. Il macramé (termine che in arabo associa le parole “frangia” e “nodo”) ha un’origine antichissima e giunge in Italia nel XV secolo importato (come tecnica e come manufatto) dai marinai che l’avevano conosciuto nei paesi arabi. Reso più raffinato dalle esperte mani delle donne genovesi che applicarono la tecnica dell’intreccio dei nodi marinari a fili sempre più sottili, tra Cinque e Seicento il macramé divenne un pizzo leggero capace di impreziosire biancheria da corredo, abiti da sposa e vesti ecclesiastiche. E se Genova divenne la patria delle frange e dei nodi, dando nuova vita a punti dagli esotici nomi mediorientali come jasmine (gelsomino), rebuce (conchiglia) o Fatima, la Repubblica di Venezia nello stesso periodo divenne la patria del merletto, dando il suo nome (punto Venezia) ad una delle tecniche più conosciute di realizzazione di merletti ad ago e concentrando la produzione sull’isola di Burano. La piccola isola divenne in breve tempo la patria del merletto, mentre il pizzo a tombolo si diffuse in tutta Italia, dai monti abruzzesi e friulani, al mare di Pozzuoli e di Rapallo.
Anche l’origine del merletto di Burano si perde nella leggenda e lega la sua nascita all’attività marinara: si narra infatti che sull’isola nei tempi antichi, un giovane pescatore in procinto di sposarsi uscì in mare e venne tentato dal canto delle sirene. Forte dell’amore per la futura sposa l’uomo riuscì a resistere al canto magico tanto che la regina delle sirene, commossa dalla fedeltà del pescatore colpì con la coda la piccola barca e dalla schiuma prodotta scaturì un magnifico velo nuziale per la giovane sposa. Il giorno delle nozze la fanciulla ammirata da tutte le ragazze dell’isola suscitò una tale invidia da indurre le altre donne a ricreare con ago e filo, il merletto sorto dalla spuma marina, per poter sfoggiare abiti ancora più belli del suo.
Questa è la leggenda, ma per certo sappiamo che nel novembre 1476 le leggi suntuarie veneziane, nel tentativo di moderare l’ostentazione del lusso dei cittadini della laguna, nominarono per la prima volta tra i tessuti proibiti, accanto ai ricami d’oro e d’argento anche il “ponto in aiere”, il punto in aria (una fitta, leggerissima rete decorata con motivi vegetali e animali) che le merlettaie buranesi avevano reso celebre in tutta Europa.
Le corti francese e inglese per almeno tre secoli fecero larghissimo uso di questo preziosissimo pizzo veneziano che possiamo vedere persino al collo del piccolo re Luigi XIV nel giorno dell’incoronazione.
Gorgiere, polsini, cuffie, scialli, guanti, veli da sposa, abiti da battesimo, sciarpe, cravatte, camicie, vesti sacre: il pregiato pizzo realizzato a mano dalle merlettaie italiane troneggia ancora oggi in ogni ritratto di ogni nobile europeo, dal Medioevo al Settecento, dal Rinascimento all’età Barocca.
Quando (nonostante la buona volontà di alcune nobildonne italiane che nell’Ottocento sostennero strenuamente, ma invano, le scuole per merlettaie) la produzione industriale soppiantò il secolare artigianato, non ci fu altro da fare che seguire il corso della storia e attendere il tempo giusto affinché un prodotto ritenuto ormai obsoleto si trasformasse in un inestimabile pezzo d’antiquariato.

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