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Phoenix Dactyliphera

Chiamata phoinix (fenice) dagli antichi greci che la identificavano come la pianta più amata in Fenicia, data la sua frequente rappresentazione come albero sacro e simbolico, la palma da dattero (Phoenix Dactyliphera L.) è una delle prime piante coltivate dall’umanità.
Anche nell’antico Egitto il nome della palma da dattero deriva da bnw, il geroglifico che rappresenta un uccello. Con un fusto vigoroso che si slancia fino a raggiungere i 20 metri, presenta sulla sommità un apparato di foglie pinnate disposte a corona che evocano simbolicamente i raggi del sole. Il suo sviluppo verticale, la raggiera delle foglie, la capacità di fiorire quando sembra ormai morta ha reso la palma uno dei più celebri simboli di vita e di rigenerazione, proprio come quello della mitologica Fenice che rinasce dalle proprie ceneri, tanto che secondo Plinio, l’albero sarebbe stato in grado di riprodursi miracolosamente seguendo anch’esso un ciclo di 1461 anni.
Nel Medio Oriente la palma è albero della vita, per gli Assiri è legata ad Assur, dio della guerra compagno di Ishtar, che viene raffigurato sulla chioma della palma; nel mondo faraonico ha doppia valenza simbolica solare e funeraria, ma anche di rinascita della vegetazione: Horus, figlio di Osiride e Iside, si nutre dei datteri della dea-palma e Iside, dea madre del culto popolare, è l’artefice della rinascita del marito Osiride, soprattutto nella variante di dea dell’albero della palma, associata ad Hathor e Nut.
Nel mondo classico assume valore trionfalistico: alla palma, conosciuta anche nella specie Nana (Chamaerops Humils) e Dum (Hyphaene Thebaica), i latini attribuivano i simboli di onore e vittoria, perché pur gravata dal peso consistente dei suoi frutti non si piegava, ma anzi cercava disperatamente di ergersi verso l’alto. In epoca imperiale si usava donare un ramo di palma ai grandi attori, auriga o gladiatori.
Con simile valore arriva ai cristiani per i quali  rappresenta la vittoria del Cristo sui peccati e sulla morte, accompagna il trionfo di Cristo a Gerusalemme e segnerà da allora in poi la vittoria del martirio divenendone l’immancabile attributo iconografico.
Nel Medioevo e nell’Islam la palma da dattero diviene l’Axis mundi, come vediamo nelle monete bizantine e nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, una probabile derivazione della visione mediatrice di questa pianta tra il Creatore e la Terra: recita un famoso detto arabo “la palma ha i piedi in acqua e la testa in Cielo”.
Nei Vangeli apocrifi troviamo il racconto di come la palma, durante la fuga in Egitto, si inchinò perché Maria e Giuseppe cogliessero i suoi frutti e fece sgorgare tra le sue radici una sorgente di acqua fresca. Questa traccia di come la palma fosse tanto importante per la sopravvivenza delle antiche popolazioni nomadi sahariane e mediorientali ci riporta alla “Naturalis Historia”, in cui leggiamo come fosse già praticata da secoli la fecondazione artificiale della pianta, attuata appendendo vicino ai fiori femminili le infiorescenze degli esemplari maschili: il suo sviluppo non poteva essere lasciato al caso, infatti la palma da dattero verrebbe fecondata solo grazie all’azione del vento, inoltre di solito inizia a fruttificare solo dopo l’ottavo anno di vita, raggiungendo la piena maturità a trenta.
I datteri devono il loro nome al greco dactilos (dito) per la forma che ricorda una falange. Già gli antichi Egizi li gustavano sia freschi che secchi come frutti molto energetici (contengono per il 70% zuccheri, poi potassio, calcio, ferro, beta-carotene, vitamina B3, niacina, fibre e una gran quantità di carboidrati).
Presso i romani i datteri venivano utilizzati per aromatizzare il vino, per fare dolci e per produrre, con la loro fermentazione, bevande alcoliche.
Nei ricettari medievali e rinascimentali, oltre ad essere serviti come frutto a fine pasto, rappresentavano l’ingrediente fondamentale di vivande complesse, come torte e pasticci, spesso associati ad altri ingredienti salati.
Platina, letterato e studioso di tradizioni popolari di epoca rinascimentale, nella sua celebre opera “De honesta voluptate et valetudine” descriveva questi frutti come dolcissimi ma indigesti, raccomandando di consumarli prima del pasto dopo averli sbucciati e snocciolati, mentre Alexandre Dumas, gran gourmet e autore, oltre che di romanzi come “I Tre Moschettieri”, anche del monumentale “Grande Dizionario di Cucina” (1873), consigliava di mangiare i datteri ben maturi, per evitare nausea e malattie alla pelle.
Cercando tra le varie ricette per cucinare i datteri, ne ho trovata una perfetta per gustarli anche in estate (il loro uso regolare contribuisce a prolungare l’abbronzatura):
Ingredienti
– 4 biscotti frollini
– 4 datteri freschi
– noci
– uva bianca e nera
– 200 g di gelato allo yogurt
– 4 cucchiai di confettura di albicocche
Preparazione
Scalda 4 cucchiai di confettura in un pentolino a fuoco dolce, fino a ottenere una salsa fluida. Lava qualche acino di uva bianca e di uva nera e asciugali delicatamente. Dividi 4 datteri freschi a metà ed elimina il nocciolo. Sbriciola 4 biscotti grossolanamente e suddividili sul fondo di altrettanti bicchieri o coppette. Lascia ammorbidire 200 g di gelato allo yogurt a temperatura ambiente per qualche minuto lavorandolo con una forchetta. Suddividi il gelato nei bicchieri, in modo da coprire la base di biscotti. Unisci i datteri e gli acini di uva nera. Irrora il tutto con la salsina di confettura. Aggiungi i chicchi d’uva bianca e spolverizzali con poco zucchero. Completa con qualche gheriglio di noce spezzettato grossolanamente. Decora ciascuna coppa, a piacere, con un biscotto frollino.

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