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Occhi di luna

Occhi di luna, sguardo seducente di donna con occhi da gatta e gattino - elaborazione ©Fototeca Gilardi

Incuriosita dalla notizia che kitten (gattino) sarebbe la parola più cliccata del web e pensando a quanto amore oggi tributiamo agli amici felini, veri padroni delle nostre case, mi sono chiesta in quale considerazione erano tenuti nell’antichità.
Le prime immagini di gatto che mi vengono alla mente sono quelle ieratiche della dea Bastet venerata nell’antico Egitto: figlia di Ra (il Sole) era raffigurata come una donna con la testa di gatto o come una gatta nera; il suo culto era particolarmente sentito nella zona del delta del Nilo e il 31 ottobre, giorno a lei dedicato, si svolgevano feste orgiastiche .
Gli antichi egizi avevano addomesticato i gatti (che chiamavano “myou”) per debellare i topi che infestavano i granai e per cacciare, ma col passare del tempo ogni casa o tempio ne ospitò almeno uno. Trattato con la più grande cura il felino aveva una considerazione tale che alla sua morte, il padrone, in segno di lutto si radeva le sopracciglia, così da mostrare il massimo rispetto nei confronti della Dea Bastet. Inoltre spesso il piccolo animale veniva imbalsamato e seppellito con tutti gli onori. Nemici dei serpenti, nell’Antico Egitto i gatti erano protetti dalla legge: era vietato far loro del male o trasferirne degli esemplari fuori dai confini del regno, pena il supplizio o la morte.
Anche nell’Antica Grecia il gatto aveva una certa importanza in quanto sacro ad Artemide, dea della caccia e signora degli animali. Artemide aveva, tra l’altro, la capacità di entrare nel corpo di un gatto o di assumerne la forma, cosa che le aveva permesso di salvarsi e fuggire, durante la leggendaria guerra coi giganti.
Alcuni vasi di epoca classica raffigurano felini tenuti al guinzaglio (gatti o leopardi) e nelle suppellettili provenienti dalla Magna Grecia si trovano le prime rappresentazioni di gatti domestici, tenuti sulla spalla dal loro padrone oppure utilizzati nella caccia agli uccelli. Il mito racconta come fu Taras, figlio del dio Poseidone e fondatore della città di Taranto, a portare per primo in Italia il gatto proveniente dall’Egitto.
Esopo, il leggendario autore greco, scrisse molte favole sul micio rappresentandolo come un animale furbo, opportunista, a volte falso, senza scrupoli, cinico, sempre affamato e disposto a giungere a qualsiasi compromesso e a commettere ogni tipo di tradimento pur di riempirsi lo stomaco. Ritroveremo queste caratteristiche “gattesche” nella figura di Arlecchino la cui maschera nera, classica, riproduce proprio il muso di un gatto.
Nonostante i gatti fossero apprezzati dai marinai greci per la loro abilità di cacciatori di topi sulle navi e per la credenza che fossero in grado di tenere lontane le tempeste, la cultura greca fu responsabile della trasformazione del gatto/Bastet/Iside, da divinità solare a divinità lunare e notturna.
Questo fu il primo passo verso la demonizzazione che la figura del gatto subì presso i cristiani, soprattutto nel Medioevo, quando la sovrapposizione tra il mondo femminile, il gatto, la notte, l’erotismo insito negli antichi culti, portò a considerarlo una creatura malefica.
La sua sensualità e astuzia erano associate alle peggiori qualità femminili, i suoi occhi che potevano vedere al buio, che sembravano riflettere la luna e trasformarsi come l’astro notturno, divennero un inquietante conferma della sua appartenenza al mondo infernale e così il gatto (specialmente quello nero, come la notte) si trasformò nel compagno prediletto dalle streghe e in creatura magica malvagia.

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