Nel recente passato diverse generazioni hanno ritenuto quasi una colpa essere (o sembrare) troppo maturi. Chi è stato adolescente in particolare negli anni Ottanta e Novanta è cresciuto in un mondo che esaltava l’eterna giovinezza dei corpi, ma anche dello spirito, un mondo che rappresentava la superficialità e la leggerezza come ideali di vita. L’unica “maturità” ammessa era quella scolastica, l’unico “rituale di passaggio” all’età adulta che ancora ha mantenuto inalterato il suo ruolo di spauracchio.
Da allora il tempo è passato e, oggi, ai ragazzi si richiede improvvisamente una tripla dose di maturità, forse per ovviare a decenni di sereno cazzeggio esistenziale, ma senza considerare che nel frattempo l’immaturità è diventata uno stile di vita generale.
I tempi cambiano, il clima mondiale è più serio, i danni causati da incauto ottimismo e pervicace cecità di fronte ai disastri, ormai si sono palesati e questi adolescenti non possono fare più gli adolescenti. Bisogna metterli in competizione in tutti gli ambiti, vanno introdotti nel mondo del lavoro prima che finiscano le superiori (degna iniziativa, se fosse pensata in modo più razionale) e vanno incentivati a “mettersi in proprio” oppure a vivere flessibilità e migrazione come una meravigliosa opportunità, quando rappresenta solo un sollievo per chi non sa più creare lavoro nel nostro paese.
E questo esame di maturità al quale sono chiamati i nostri ragazzi, è ancora uno scoglio da superare? È davvero utile alla formazione di una sicurezza di sé? Resta uno strumento per selezionare chi è pronto per il mondo del lavoro e per gli studi universitari?
Quando nel 1923 Giovanni Gentile istituì questo “esame di stato” destinato i ragazzi (dei soli licei) che concludevano il corso di studi superiori, l’intenzione che lo guidava era quella di uniformare le prove presentate agli studenti delle diverse scuole pubbliche e private. Allora le commissioni d’esame erano formate da professori universitari che passavano di scuola in scuola per verificare la preparazione dei “maturandi” con grande severità, tanto che nei primi anni l’esame venne superato solo dalla metà degli studenti. Ai tempi i ragazzi avevano già avuto modo di allenarsi con una serie di “prove” fin dagli 8 anni, gli esami infatti erano numerosi: c’era quello di 3^ elementare, poi quello di 5^, seguito dall’esame di ammissione per la scuola media, poi l’esame di 3^ media, e quello alla fine del primo biennio delle superiori. Giunti alla Maturità i ragazzi dovevano dimostrare di essere preparati non solo sul programma dell’ultimo anno, ma su tutti e 5 gli anni; le prove scritte erano 4: al Classico tema di Italiano, versione di Greco, traduzione dal Latino all’Italiano, ma anche dall’Italiano al Latino; allo Scientifico prova di Italiano, Latino, Matematica e Lingua Straniera.
Quando negli anni Sessanta, la scuola si aprì a tutti, l’esame di Maturità venne “semplificato” riducendo a 2 le prove scritte, facendo scegliere agli studenti, quando possibile, anche le materie orali, eliminando i filtri di accesso a quasi tutte le Università. Oggi il legislatore sembra voler restringere le maglie, non tanto per alzare il livello di preparazione dei nostri figli (visto che gli investimenti nella scuola pubblica diminuiscono costantemente), quanto per ripristinare la distanza tra una scuola di élite (magari privata) e una scuola popolare che possa andare alla deriva sul modello americano. Sperando che qualcuno ai vertici rinsavisca presto, sappiate cari “maturandi” che anche i più celebri autori e scienziati hanno sudato malvolentieri sui libri, lo stesso Leopardi, che pure viveva per il sapere, se ne lamentava e Carlo Dossi, scapigliato non privo di spocchia, dichiarava che “fra gli avvilimenti di un giovane d’ingegno, massimo è quello di andare a scuola e subire esami”. Il mio augurio però e quello di seguire l’esempio di Jack London, che così racconta: “ Studiavo diciannove ore al giorno, fin quando non sostenni l’ultimo esame. Non volevo assolutamente più vedere libri. Non c’era che un’unica cura che mi potesse guarire: riprendere le mie avventure”.
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