« Se cediamo, se gli diamo il minimo appiglio, non ci sarà più un mestiere che queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi, vorranno combattere per mare […]. Se poi si mettono a cavalcare, è la fine dei cavalieri. »
Per una volta vorrei che a celebrare l’8 marzo non fossero solo le lacrime per la triste condizione femminile nel mondo, ma delle risate che arrivano da un tempo molto lontano, un tempo (2400 anni fa) in cui un uomo decise di usare il suo genio e la sua posizione privilegiata a favore “dell’altra metà del cielo”.
Nell’Atene del V secolo a.C. abitata da pomposi capifamiglia dediti alla guerra e con potere di vita e di morte sulle loro femmine, un certo Aristofane veniva applaudito (e criticato) nei teatri cittadini per due gravissime colpe che oggi chiameremmo pacifismo e femminismo. Lo scaltro e sarcastico autore, che non aveva risparmiato strali velenosi neppure a quel “santo” di Socrate, nel 411 a.C. mise in scena “Lisistrata”, da cui è tratta la citazione di apertura.
La protagonista è una donna ateniese che, disgustata dalla disastrosa guerra fratricida tra Sparta e Atene, e stanca della lontananza degli uomini da casa, decide di riunire tutte le donne della regione sull’Acropoli di Atene e propone loro di ribellarsi alla guerra forzando la volontà maschile attraverso uno sciopero del sesso.
In un primo momento le donne shockate le girano le spalle: non vogliono rinunciare all’unica consolazione in una vita fatta di fatica e sottomissione, ma poi accettano la proposta di Lisistrata e alla fine avranno ragione dei loro uomini.
Fin dalle prime battute si ha l’impressione che Aristofane sia così edotto del mondo femminile da averne spiato di nascosto le conversazioni più intime, in cui anche le brave madri di famiglia e le fanciulle in fiore possono finalmente concedersi la libertà di essere sboccate e di dire esattamente ciò che pensano:
LISISTRATA: E allora parlo: ché non c’è da fare misteri. Donne, se vogliam costringere gli uomini a far la pace, ci dobbiamo astenere…
MIRRINA: Da che? Di’.
LISISTRATA: Lo farete?
MIRRINA: Ci costasse la vita, lo faremo!
LISISTRATA: Ci dobbiamo astenere dall’uccello… (Sgomento generale)
Che mi vi rivoltate? Dove andate? Perché torcete il labbro, e fate segno di no? Quei visi perché mai si sbiancano? Perché scorron le lagrime? Volete o non volete? O a che vi preparate?
MIRRINA: Io non potrei: séguiti pur la guerra!
VINCIBELLA: Nemmeno io: séguiti pur la guerra!
Il problema non è ideologico per Lisistrata e le donne greche, ma è pratico: loro partoriscono e allevano figli solo perché questi vadano a morire; sprecano le uniche doti loro riconosciute dalla società maschilista (bellezza e giovinezza) invecchiando da sole chiuse in casa perché gli uomini sono sempre in guerra; sanno bene come andrebbe amministrato il bene pubblico perché amministrano già i beni di una casa e la faccenda non è poi diversa, ma sono costrette al silenzio; sanno filare e sbrogliare la lana, farne tessuti, la stessa tecnica si può utilizzare per sciogliere nodi politici senza uccidersi, ma nessuno le ascolta. Così, consapevoli sia del loro immenso potenziale non riconosciuto, sia dell’esiguo spazio d’azione concesso loro nella Grecia del 400 a.C. usano l’unica risorsa che gli uomini riconoscono alle donne da secoli a questa parte.
Il risultato è esilarante, ma la portata rivoluzionaria di questa commedia è così travolgente da risultare ancora capace di scandalizzare. E che un’opera vecchia di 2400 anni possa scandalizzarci oggi, dice già tutto.
Aristofane non santifica le donne, non fa l’errore di dare loro credito rendendole creature celesti e relegandole in un’altra prigione, ma mostra senza veli i loro difetti, così come la loro intelligenza, la rabbia, l’umorismo, la capacità strategica, le contraddizioni, i desideri fisici non così diversi da quelli maschili. Anche le donne amano lottare e sanno organizzarsi per prendere decisioni, anche le donne sanno fare la loro guerra, nel mondo auspicato da Aristofane, ma la battaglia ha il solo scopo di raggiungere la pace, di non mandare più a morte i propri figli, di non sprecare più le risorse comuni, amministrandole con giustizia.
In questo 8 marzo sospendiamo la santificazione “semel in anno” di metà dell’umanità, aprendoci semplicemente a una diversa visione, quella di un uomo che millenni fa, decise semplicemente di osservare le donne con amore, con rispetto e intelligenza, ma soprattutto senza paura.
© riproduzione riservata