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L’inutile dittatore

Manifesto per il film 'The Great Dictator' di Charlie Chaplin, 1940 elaborazione ©FototecaGilardi

Ci sono alcune persone che trovano i dittatori pericolosi e ridicoli.
Sono sempre meno, perché “lo spirito dei tempi” corre a gran velocità verso nuovi totalitarismi che sembrano rassicurare particolarmente giovani e giovanissimi. Eppure la storia insegna che nessun dittatore ha lasciato un paese più prospero di quello che si è preso (o gli hanno messo in mano).
La parabola, lunga o breve del dittatore, ha un decorso discendente e precipita con sé i popoli che vi sono sottoposti.
Per negare ciò, ci si affanna ad attribuire alle figure storiche del super-colossale “grande Padre della patria”, imprese eccezionali, doti strategiche e politiche fuori dal comune, commoventi gesti di bontà, legislazioni il cui valore si riverbera per saecula saeculorum e, indispensabile, una capacità amatoria degna del grande Zeus.
Il più delle volte tali notizie sono palesemente false, ma pochi si prendono la briga di verificarle perché è così tanto il desiderio che qualcuno di forte, buono e amorevole (sic!) ci sollevi dalle nostre responsabilità, che ci comandi come formichine ordinate, che ci dia lavoro, casa, che ci dica cosa è giusto pensare e dire, che abbiamo l’esigenza spasmodica di credergli.
Senza pensare al significato drammatico di mettere la nostra vita in mano a qualcuno che brama di manovrare milioni di persone come fossero burattini.
Se pensiamo a Napoleone, Mussolini, Mao, Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, Bokassa, Papadopoulos, Kim Jong-un, Saddam Hussein, Gheddafi e così via, abbiamo una piccolissima mappa di alcuni dei dittatori più recenti, tutti indistintamente impegnati a controllare le informazioni su di sé e la fama fittizia del proprio operato.
La figura del Padre della patria può reggere solo se si elimina chi può fare domande semplici e precise e chi potrebbe insinuare il sospetto che la dittatura non sia “il migliore dei regimi possibili”. Perché una dittatura si realizzi è necessario che i cittadini credano volontariamente a un sacco di menzogne, prima di tutte che queste figure storiche, sulle quali proiettiamo la responsabilità dei grandi eventi, non sono burattini come noi, ma governano la storia con la loro eccezionale volontà.
A loro viene perdonata ogni nefandezza, perché sono geniali. E il genio “sa”.
Abbiamo bisogno di semplificare tutto ai minimi termini e di credere che chi fa la voce più grossa, chi gonfia il petto, chi ce l’ha più lungo/duro/esplosivo abbia il diritto di decidere per tutti.
Eppure in fondo al cuore sappiamo che il reale spessore umano di un dittatore assomiglia più alla caricatura che ne fece Chaplin piuttosto che ai manifesti di propaganda autoincensanti. Così come la patetica e spaventosa figura del Presidente ne “L’Autunno del patriarca” di Garcia Marquez è più sincera di qualsiasi proclama politico.
È il giullare l’unico a cui è permesso dire la verità, tanto … chi gli crederebbe?
Tolstoj (serioso giullare russo) tra il 1863 e il 1869, sfidando la visione condivisa dai suoi contemporanei, porta a termine il più grande romanzo storico dell’Ottocento: “Guerra e Pace”, opera monumentale che abbraccia un periodo tra il 1805, anno del trionfo napoleonico ad Austerlitz, e il 1812, anno dell’occupazione e dell’incendio di Mosca da parte di Napoleone e del successivo (inspiegabile) tracollo delle armate francesi in territorio russo.
Il grande autore è convinto che la storia sia fatta dall’interazione tra le volontà di tutti i singoli individui, e non dai capi carismatici (anche loro strumento della storia), e ci dà un ritratto impietoso dell’imperatore dei Francesi, molto diverso da quello che troviamo sui libri di storia. Napoleone è un omino presuntuoso, convinto di essere l’artefice del destino dei popoli europei, incapace di strategia, iroso e privo di doti, tranne quella di un’ambizione sfrenata.
Il suo avversario lo zar Alessandro I è un debole misticheggiante in balia degli ideali e dei cortigiani. L’unico che capisce come stanno le cose è il vecchio e fatalista generale Kutuzov che, a capo dell’Armata russa, è convinto che l’esito delle guerre e l’esercizio del potere, dipendano solo dalle singole volontà dei singoli soldati. Così, astenendosi e avallando semplicemente ciò che accade, sbaraglia i francesi col tempo e l’attesa.
Peccato che a Tolstoj occorrano quasi 2000 (magnifiche) pagine per spiegare che un singolo uomo non può diventare il risolutore dei nostri problemi semplicemente “comandando”, poiché chi comanda realmente è l’alchimia delle singole volontà di tutti gli umani. Ognuna con la propria dose di responsabilità.
Sarebbe un’indispensabile lettura pre-elettorale.

[…] le innumerevoli persone che prendevano parte alla guerra […] avevano paura, si vantavano, si rallegravano, s’indignavano, manifestavano svariati pareri credendo di sapere ciò che facevano e di farlo per se’; tutti, invece, erano strumenti involontari della storia e andavano lavorando a un’opera il cui senso, per loro, restava occulto, mentre a noi appare affatto comprensibile. Tale è la sorte immutabile di tutti gli uomini d’azione; e tanto meno essi sono liberi, quanto più in alto si pongono nella gerarchia umana.
(Lev N. Tolstoj “Guerra e Pace” volume 3 – Parte 2 , cap.I)

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