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L’importanza di essere “fuori”

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Vi siete mai sentiti dare dei “pecoroni”?
Non sempre esplicitamente, ma a me è successo alcune volte. È uno degli insulti che più mi colpisce perché reca con sé l’accusa di seguire la massa, di non saper pensare con la propria testa e, si sa che noi umani vorremmo sentirci sempre unici e originali.
Essere paragonati ad animali che, alla vista di un angolo, vi si dirigono seguendo il primo del gruppo e si addossano gli uni agli altri a testa bassa, non è proprio confortante.
Eppure forse questa è l’immagine che più di tutte descrive il comportamento di un gruppo umano, istintivamente piramidale. Non per niente la parola “gregario” (cioè predisposto a vivere in gruppo e a mettersi al servizio di esso, ma inteso anche nel senso di subordinato) proviene appunto dal latino grex-gregis, gregge, così come l’azione di “aggregarsi” (ad + grege) , cioè riunirsi come in un gregge e “congrega” (con + grege).
Ma chi sta fuori dal gregge?
Beh, ci sono due possibilità. Nella peggiore delle ipotesi è stato “segregato” (se= a parte + grege), cioè separato dal gruppo, come accadeva ai malati messi in quarantena. Evidentemente devono esserci delle cause molto gravi per uscire dalla massa dei nostri simili, ma non sempre è così.
A volte la nostra uscita può essere volontaria o derivare da una particolare dote che ci distingue. Ecco, se ciò accade, potremmo essere definiti fuori dal gregge, o meglio “egregi” (ex=fuori + grege), cioè i migliori del gruppo, scelti dalla massa. Questa scelta allude all’antica cernita del migliore agnello destinato al sacrificio, a questo fine accuratamente controllato perché risultasse privo di difetti per la divinità e tirato fuori dal gregge.
Analoga origine ha l’aggettivo “esimio” che deriva da ex + emere= prendere, ancora una volta con il senso di selezionare per gli dei, grazie alle sue straordinarie caratteristiche, il migliore del gruppo.

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