(Cartoline a Ponzone) a cura di Lost Dream Editions
Ho avuto l’impressione di riconoscerlo subito l’angolo da cui le due fotografe dilettanti stanno faticosamente cercando di prelevare un’immagine ottica. Se non mi sbaglio, è quello dove sono solito parcheggiare la bicicletta, quando vado a immergermi nella sotterranea Feltrinelli di Piazza del Duomo. La didascalia che accompagna l’immagine, di Charles H. Traub, è avara: «Milano 1981». Le fotografie di valenti fotografi che mostrano un fotografo che sta fotografando mi hanno sempre incuriosito e dato da pensare: soprattutto quando, come in questo caso, è ignoto il soggetto che ha fatto nascere il desiderio di conservare un ricordo visivo di quanto si sta guardando. Un ricordo visivo miniaturizzato e enormemente impoverito, come quello fissato sul negativo di ridotte dimensioni utilizzato nelle macchinette di scarsa qualità usate dalle due anziane turiste: Ando Gilardi ha scritto delle splendide pagine sull’inevitabile delusione provata dal “fotografo” quando apriva la busta contenente le stampe automatiche di quanto ricordava di avere visto di persona e nel mirino dell’apparecchio fotografico.
Possiamo dividere, un po’ grossolanamente, i fotografi in tre categorie: i professionisti, gli amatori e … e tutti gli altri, quelli che desiderano portare a casa degli appunti visivi automatici, prelevati da macchine più automatiche possibili, che demandano al “fotografo” solo la scelta dell’inquadratura: il difficile compito da cui sono assorbite le due turiste nella foto.
Perché i professionisti fotografino è piuttosto evidente: è il loro lavoro. Varie e complesse le ragioni che spingono l’amatore a prelevare fotografie e nemmeno minimamente affrontabili nello spazio di un post. Ma i fotografi appartenenti alla terza categoria, che potremmo definire dei “ricordisti”, perché fotografano? Non si fidano della loro memoria visiva? Vogliono mostrare un documento ottico che provi la realtà di un viaggio, del rapporto con una persona un luogo un oggetto? Fotografano perché vogliono, ma non vale per tutte le immagini che talvolta sono prelevate per un uso privato, condividere delle esperienze visive?
«Esistiamo in immagine, ciascuno di noi esiste solo se ha diffuso un’immagine di sé». Ando Gilardi la pensava così. ( da http://www.aracne-rivista.it/SI-FEST%202012%20GILARDI.pdf di Marcello Tosi “Si Fest 2012 Ando Gilardi” ) In una cultura in cui non è più sufficiente, per avere la certezza di essere, il pensiero, che bastava a Cartesio, diventa indispensabile finire in un’immagine, possibilmente moltiplicata sulle pagine di un giornale o un rotocalco, su una pellicola cinematografica o sugli schermi dei computer e dei televisori. Non è indispensabile essere ritratti nell’immagine: come alternativa a una narcisistica, e inevitabilmente ripetitiva, declinazione di immagini di noi stessi, un valido succedaneo è la condivisione delle nostre esperienze visive.
Nell’immagine:
Fotografia di Charles H. Traub, «Milano 1981», tratta dal fotolibro “Dolce Via: Italy in the 1980s”
( da www.buzzfeed.com )