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Lavoro minorile senza tempo

bambino bracciante e bambino fabbro, Qualiano (NA), fotografie di Ando Gilardi, ottobre 1954 elaborazione ©Fototeca Gilardi

Il dramma dello sfruttamento dei minori è una piaga dura a morire poiché ha la pessima abitudine di riaprirsi nei periodi di crisi. È piuttosto inutile affrontarla piangendo ritualmente una volta all’anno sulla vita di una singola bambina uccisa dai suoi sfruttatori: a volte dedicare una giornata mondiale a problemi di questo tenore è solo un metodo collettivo per lavarcene meglio le mani. È importante invece non dimenticare e tenere alta l’attenzione. Secondo l’ultimo report dell’Unicef «un punto percentuale di crescita della povertà induce almeno un +0,7% di aumento del lavoro minorile […] e in tempi di crisi il lavoro minorile diventa un meccanismo di coping (una strategia di adattamento) per molte famiglie. Appena la povertà cresce, le scuole chiudono e diminuiscono i servizi sociali, molti bambini vengono spinti a lavorare».
Capire cosa significa “lavoro minorile” è semplice: l’Italia, come molti paesi usciti a pezzi dalle guerre, negli anni Cinquanta vedeva bambini e bambine di meno di 10 anni fare la fila insieme agli adulti per un ingaggio nei lavori agricoli o domestici. E non si trattava di un curioso aspetto antropologico o di costume, ma di un bisogno estremo di sopravvivenza che si incontrava con l’altrettanto estrema mancanza di scrupoli dei datori di lavoro. Facile immaginare quanto fossero in pericolo i bambini, quanto la loro precoce e forzata maturità li facesse sentire orgogliosi di quello che spesso veniva passato come apprendistato, ma a scapito dell’istruzione, di un futuro migliore e, in casi estremi, di un’integrità fisica e psicologica, perché storicamente il fenomeno ha delle zone d’ombra in cui si annida la tratta dei bambini.
Possiamo far finta di non sapere che anche oggi le nostre costosissime scarpe sono fabbricate da bambini tenuti chiusi in fetidi capannoni a lavorare per 12/14 ore di fila; possiamo distogliere lo sguardo dalla realtà di bambine di 8 anni che fanno le domestiche o di coetanei che cuciono palloni, lavorano al telaio o fanno mattoni sotto il sole, ma le immagini parlano da sole e arrivano molto meglio dei numeri o delle parole. Guardiamoli questi bambini che giorno dopo giorno muoiono di sfruttamento, o muoiono per essersi ribellati (ce ne sono alcune centinaia di migliaia anche qui in Italia) e parliamo anche con gli ex bambini che oggi sono adulti settantenni o ottantenni; chiediamo loro di completare con le parole ciò che le nostre immagini raccontano.
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