Sta rimbalzando su tutti i quotidiani la notizia che le impronte digitali, da più di un secolo punto fermo dell’identificazione, non siano realmente “uniche” e diverse da individuo a individuo. Insieme alla fotografia segnaletica, la loro applicazione in ambito criminologico segnò una vera svolta epocale illudendoci di poter controllare le devianze, semplicemente “schedandole” in modo scientifico. Il potere costituito appropriandosi delle facce e delle impronte dei delinquenti, poteva finalmente gestire il fenomeno criminale. Solo in seguito arriveranno i R.I.S. e le applicazioni della matematica, della chimica e della fisica quantistica alle indagini criminali, ma tutto iniziò proprio con l’uso poliziesco delle impronte digitali a fine Ottocento e con l’uso che il sistema giudiziario fece della fotografia nella lotta al crimine, come raccontò magistralmente Ando Gilardi in Wanted!
La storia delle impronte digitali risale a tempi immemorabili, quando erano utilizzate per le transazioni commerciali e per rendere più vincolanti i contratti, come firma personale. Proprio con questa funzione ricominciarono ad essere utilizzate da William James Herschel (nipote del noto astronomo) che per primo ripensò alla loro applicazione pratica e sistematica quando, assistente legale della Compagnia delle Indie Orientali impose l’utilizzo delle impronte digitali sui contratti stipulati coi commercianti nativi, a partire dal 1858. Intanto anche un medico scozzese si stava interessando della questione, Henry Fauld il quale, convinto da diversi confronti che le creste e le valli dei polpastrelli fossero uniche per ognuno di noi, cercò di coinvolgere Charles Darwin nella ricerca. Il celebre naturalista lo indirizzò al cugino sir Francis Galton, antropologo, climatologo ed eugenetista, che rimase tanto colpito dall’ipotesi da farla sua in senso letterale, dimenticandosi di Fauld. Galton misurò la probabilità che a due individui diversi corrispondessero le stesse impronte, studiò le caratteristiche razziali e l’ereditarietà delle tracce digitali, e formulò un sistema per la loro classificazione pubblicando il suo lavoro nel 1888, cioè quasi un decennio dopo l’incontro con Fauld il quale venne snobbato anche da Scotland Yard quando propose l’utilizzo di questa traccia biometrica per le indagini criminali. Al contrario Galton trovò il modo di applicare alla criminologia le sue scoperte, grazie alla collaborazione con Sir Edward Henry, comandante della Polizia Metropolitana di Londra, conosciuto anche per essere stato il primo a introdurre l’utilizzo di cani poliziotto nelle indagini.
A Parigi già dal 1870, Alphonse Bertillon in qualità di capo fotografo della prefettura, aveva raccolto una serie di schede con tutte le caratteristiche fisiche dei detenuti corredate di immagini di fronte e di profilo e, chiaramente, impronte digitali. Fondatore del primo laboratorio di polizia scientifica per l’identificazione dei criminali, è ritenuto per questo l’inventore dell’antropologia criminale, chiamata appunto Sistema Bertillon.
Da allora il sistema di riconoscimento biometrico ha fatto incredibili passi avanti, rendendo obsoleti (e spesso smentendo) gli antichi parametri. Oggi tocca alle impronte digitali.
Si è spesso detto che ognuno di noi ha almeno 7 sosia nel mondo. Con questa premessa un piccolo sospetto sulla unicità delle impronte digitali doveva sorgere anche prima, ma il sinuoso rilievo di valli e increspature sui polpastrelli sembrava proprio impossibile avesse un “doppione”. Invece la notizia della fallibilità dell’impronta digitale viene dagli esperti di studi forensi dell’Associazione americana per l’avanzamento delle scienze, i quali in realtà ritengono che non esista un metodo univoco per associare un corredo di impronte a un solo individuo, ma neppure un metodo scientifico per stimare quante persone condividano quella stessa impronta nel mondo.
Un brivido mi corre lungo la schiena pensando che questa potrebbe essere una buona scusa per procedere a una rilevazione globale delle impronte digitali (per superare almeno il secondo problema), ma il dibattito sull’utilità e l’opportunità di utilizzare le tracce dei polpastrelli come “password universale” è già in atto da tempo ed è stato il mercato degli smartphone a rilevare per primo il nodo dell’identificazione certa, quando un gruppo di hacker riprodusse con una stampante 3D l’impronta del Ministro della difesa tedesco da semplici fotografie.
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