Scopro adesso che i preti non fanno voto di castità!
Certo che non si finisce mai di imparare: la castità alla quale sono tenuti i preti non sarebbe diversa da quella che vincola qualsiasi “buon cattolico” non sposato.
Per la Chiesa infatti, sono i frati, i monaci, le suore e la maggior parte dei religiosi, a professare i voti canonici di castità, povertà ed obbedienza, mentre il prete alla sua ordinazione non professa alcun voto, promette solo di non sposarsi.
Da qui nasce l’equivoco.
Infatti come è noto, la Chiesa cattolica proibisce ai propri fedeli qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio, per cui la castità a cui, di fatto, il prete è tenuto, è solo una conseguenza della sua promessa di celibato.
Infrangere questa promessa e avere un’amante (teoricamente) non dovrebbe essere più scandaloso che per due fidanzati avere rapporti prima del matrimonio, ma per la percezione comune, un religioso è un religioso, tanto più che dovrebbe dare il “buon esempio”.
Invece quello del prete innanzitutto è un “ministero”, come dire … un lavoro, un “servizio” che alcune persone decidono di svolgere all’interno della comunità religiosa.
Ma c’è di più: neppure il celibato è sempre stato un obbligo per i preti, anzi! Il celibato è stata una misura sociale, storica, civile e politica che risale all’XI secolo, precisamente alla riforma di Papa Gregorio Magno.
La Chiesa cattolica romana aveva ammesso per un millennio uomini sposati al sacerdozio, pur esigendo da parte loro una condotta irreprensibile: era previsto l’accesso a qualsiasi grado dell’ordine sacro da parte di chiunque fosse, però, monogamo. Eh sì, perchè c’erano anche sacerdoti poligami!
All’inizio addirittura si preferiva che i preti fossero sposati e il celibato era considerato come una condizione immorale, dalla quale erano esclusi soltanto gli asceti e gli eremiti che non vivevano a stretto contatto con il popolo.
Col Concilio del 386 venne per la prima volta stabilito che vescovi e sacerdoti sposati non potessero più convivere con le proprie mogli e che osservassero la “continenza” , ma questa norma fu ampiamente disattesa durante tutto l’alto Medioevo.
I preti cattolici, ancor prima del decreto ufficiale, ricorsero all’unione di fatto, proprio perché si vietava loro d’avere una moglie legittima: la concubina non era l’amante, ma la donna con cui si conviveva senza legalizzare l’unione.
Ribadito e formalizzato ufficialmente più tardi, durante il Concilio di Trento (1545) il divieto al sacerdote (e in particolare ai vescovi) di avere moglie e figli legittimi venne così imposto con la forza per due ragioni principali.
Da una parte i nobili, proprietari della chiesa del loro feudo e beneficiari delle relative offerte e rendite, avevano l’obbligo del sostentamento del clero, perciò preferirono sacerdoti che non avessero moglie, poiché la convivente e figli illegittimi non avevano diritto al mantenimento.
Dall’altra parte imporre il celibato ai vescovi permettendo loro persino di divorziare dalla moglie legittima per assumere la carica, ebbe lo scopo di evitare che l’alto clero finisse per fare gli interessi delle grandi famiglie aristocratiche del tempo, mettendo in secondo ordine quelli della Chiesa. Per quanto la vicenda dei Borgia e di molte altre “dinastie” di papi ne avrebbe in seguito dimostrato la totale inefficacia.
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