“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio …”
Ecco come inizia la ”Leggenda del Piave”, la più conosciuta canzone patriottica italiana, che per qualche tempo, fu anche il nostro inno nazionale. Racconta del silenzioso avvicinamento notturno del nostro esercito al confine austriaco, nel 1915, della disfatta di Caporetto e del trionfante attacco finale del 1918. Quasi tutti noi bambini, negli anni settanta, la sapevamo a memoria: i nostri nonni (molti congedati come “cavalieri di Vittorio Veneto“) avevano marciato tra quei poveri fanti che, di solito, non corrispondevano affatto alle figure felicemente eroiche, celebrate dalla retorica nazionale. Di solito i nonni che avevano fatto la Prima guerra mondiale, non amavano parlarne, anzi preferivano dimenticarla e, alle insistenti domande di noi bambini, rispondevano in modo brusco e laconico : “La guerra è una gran brutta cosa”. Fine.
Loro lo sapevano bene. I nonni che avevano fatto la Prima guerra mondiale, avevano anche visto, 25 anni dopo, i loro figli partire per la Seconda. Avevano passato mesi e mesi in trincea in compagnia dei pidocchi e della paura. Molti, moltissimi avevano disertato; altri erano tornati mutilati nel corpo e nello spirito.
Le nonne poi, erano le più arrabbiate con la guerra. Loro erano rimaste a casa ad aspettare i fidanzati neanche ventenni, con l’angoscia di non poterli mai più rivedere, o ad aspettare i giovani mariti, magari con un figlio in grembo e altri due o tre piccoli da crescere da sole o in compagnia degli anziani, gettate in un mondo che richiedeva loro di fare anche la parte degli uomini, in fabbrica, a casa, nei campi, di fronte ai nemici che razziavano il poco cibo … e chissà cos’altro.
I miei nonni, 100 anni fa, erano due giovani contadini poveri, che sapevano per fortuna leggere e scrivere, che amavano ballare e che si erano appena fidanzati. Quando nel 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Impero austro-ungarico, mio nonno aveva appena 20 anni, baffoni corvini e due intensi occhi azzurri (che non erano poi così apprezzati all’epoca!). Mia nonna aveva 17 anni, tanta fede e tanta pazienza, che fortunatamente fu premiata.
Questi eventi, sulla pelle degli italiani, hanno una qualità più tragica e meno retorica di quella delle ricorrenze, che si riverbera nelle generazioni successive come un rifiuto istintivo alla guerra. L’ostilità alla guerra passa attraverso piccoli dettagli quotidiani, come quello di mio nonno che, mentre a 8 anni sbucciavo maldestramente le patate, mi gelò dicendo: “Cosa fai!? Con tutto quello scarto, in guerra, noi avremmo potuto mangiare!!!”. L’unica frase che gli abbia mai sentito dire, sulla terribile esperienza. O come un altro nonno, che raccontò al nipote di aver “catturato” due soldati austriaci, sotto minaccia: i due “nemici” non ce la facevano più e lo avevano costretto a prenderli prigionieri, puntandogli (loro!) il fucile addosso. O come la nonna di un amico che, ormai in tempo di pace, ancora convinta che la vera guerra l’avevano fatta le donne, lo portava a raccogliere i pinoli in zona militare dicendo con aria di sfida: “Ci provino a sparare!!! La terra è di tutti!”.
Siamo stati fortunati: il dolore dei nostri nonni ci ha “vaccinato”, per ora, dalla tentazione della guerra.
Inviterei a celebrare questo … Molto meno, altro.
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