«La valutazione generale inequivocabilmente propende per l’autenticità del documento, le cui caratteristiche grafiche definiscono un profilo di simmetrie univoco e coerente con l’autografo napoletano… Si può dire che la stesura sembra databile tra il 1821 e il 1822».
Queste le valutazioni tecniche su una preziosa pagina autografa recentemente uscita dai cassetti di un professore marchigiano in pensione. Ebbene sì, pare che dell’Infinito, la più celebre poesia del poeta di Recanati, sia “saltata fuori” una terza copia manoscritta oltre a quelle conservate nei musei di Napoli e di Visso (Mc).
Peccato che questo documento, reso pubblico pochi mesi prima dell’uscita di un film sulla vita del malinconico e coltissimo (nonchè gobbo) poeta, sia stata sequestrata con il sospetto di essere un falso perché esattamente corrispondente alla versione napoletana.
Così, tra un proprietario offeso che professa la sua buonafede, un erede scettico e un direttore di museo con un palmo di naso, l’infinita questione dell’Infinito si ripropone per l’ennesima volta e suscita in noi profani una domanda: non sarà che, nella nostra epoca, i manoscritti letterari abbiano la stessa natura delle reliquie religiose in epoca medievale? Quelle reliquie che si moltiplicavano infinitamente tanto da produrre santi alti due metri, con venti dita e tre tibie …
In ogni caso sarà un piacere vedere, sugli schermi cinematografici, un Leopardi certamente più fascinoso dell’originale (lo interpreta Elio Germano) che renderà giustizia all’immensa e precoce cultura del grande poeta, ma forse renderà giustizia anche al suo coraggio di guardare oltre quella siepe che per troppo tempo il guardo escluse, senza impedirgli di avventurarsi in un’Europa in fermento che produrrà, nel giro di un decennio, numerosi moti insurrezionali, preludio dell’esperienza risorgimentale.
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