Il 1° maggio 1890 si celebrava per la prima volta in tutto il mondo la Festa Internazionale dei Lavoratori.
Per la prima volta nella storia del movimento operaio, nelle più importanti città di Europa e Stati Uniti le piazze si riempirono di operai e operaie compatti, organizzati, uniti al grido di “Vogliamo le otto ore!” così come era stato deliberato alla precedente Internazionale di Parigi quasi un anno prima.
Richiedere e ottenere di poter lavorare non più di otto ore in fabbrica era una meta sulla quale il movimento operaio non aveva intenzione di cedere, tanto più che un quarto dei lavoratori erano allora costituiti da minori. Una relazione al convegno nazionale degli scienziati italiani del 1844 raccontava già di “fanciulli di 10, di 8, perfino di 5 anni, chiusi per 13 e talora per 15 ore in mefitiche officine, legati ad un lavoro incessante, e quando più la natura non poteva, colle percosse obbligati a muoversi ed a vegliare; […] sonno faticoso ed interrotto; membra dolorose, guaste, infiacchite; vecchiezza precoce”.
Quasi cinquant’anni più tardi, poco era cambiato se persino nelle statistiche ufficiali del ministero delle finanze si trovava scritto che i bambini in fabbrica, pur ricevendo un terzo del salario degli adulti, erano comunque tenuti a lavorare più di 12 ore al giorno in ambienti insalubri, non erano esentati dai turni di notte e restavano analfabeti. Se questo era il trattamento riservato ai bambini, è piuttosto facile capire che delicatezze e attenzioni fossero riservate a uomini e donne adulti i quali, ormai consapevoli di appartenere ad una stessa “classe sociale” capace di organizzarsi, stavano faticosamente alzando la testa per scegliere almeno in che modo morire, se piegati sui telai meccanici o lottando per spuntare condizioni di lavoro che non fossero disumane.
Quindi non confondiamoci, una manifestazione di lavoratori nel 1890 non era certo un allegro corteo di gente in vacanza, in marcia verso “il concertone”: la mattina del Primo maggio di centotrenta anni fa, i nonni dei nostri nonni sfidarono consapevolmente i governi che avevano posto loro il divieto di manifestare, sfidarono un potere ecclesiastico (assai più pesante e capillare di ora) il quale aveva appena stabilito ufficialmente che “togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile” e in nome di questo principio invitava a piegare la testa di fronte ai naturali soprusi procedendo ad un’impossibile conciliazione.
Non più di tre o quattro generazioni fa i nostri trisnonni sfidarono le cariche e gli arresti della polizia, i fucili, le serrate padronali e i probabili licenziamenti che li vedevano già miseri, sostenuti solo dalla solidarietà di altri operai e contadini organizzati nelle prime rudimentali forme di sindacato.
Sebbene sia ormai incomprensibile ai più l’origine di questa celebrazione e ancor più il motivo per cui, dopo 130 anni, sia ancora segnata in rosso sul calendario, oggi è forse più che mai il momento di ricordare che noi umani non siamo sempre stati così impauriti e ottusi da non capire quale fosse il segno che un sistema di sfruttamento economico non deve mai oltrepassare, quindi:
Buona Festa del Lavoro … che non abbiamo
Buona Festa dei Lavoratori … che non siamo più
Buona Festa dei Lavoratori che saremo quando, prendendoci per mano come 130 anni fa, imboccheremo un’altra strada, sordi ai richiami dello “stato naturale delle cose“.
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