Oggi possiamo riposarci: niente più “Sì o No” al Referendum Costituzionale. Ha vinto il “no” e Renzi si è dimesso. I politici degli schieramenti per il “no” si sentono vincitori e si preparano a sostituirlo.
Gli italiani, invece, scaldano i muscoli per la prossima poderosa pedata a chi verrà con intenzioni meno che oneste, a governarli. Il clima ormai è questo e non è piacevole ne’ per chi vota ne’ per chi amministra.
Nel nostro paese, che è sempre meno “di artisti e navigatori”, e sempre più solo di “santi” (gli unici ai quali si immagina ormai di chiedere un intervento) il popolo è stato posto da tempo sotto la protezione del “poverello” San Francesco. È il santo dei poveri che protegge noi italiani, un santo amatissimo, pacifista, rivoluzionario, che parlava con gli animali, camminava scalzo nella neve, si denudava in pubblico, gettava al vento i beni paterni e fuggiva a ricostruire chiese diroccate circondato dagli “ultimi”.
Questo è il nostro patrono. Un uomo che ha già dettato una soluzione al disastro, alla guerra, alla miseria, all’emarginazione, otto secoli fa. Il popolo italiano è protetto da un Santo il cui esempio di vita è assai arduo da imitare, ma che probabilmente era parecchio in sintonia con quella massa di derelitti che sono sempre stati gli italiani nel corso della storia. Così Pio XII pensò bene, nel 1939 di proclamarlo Patrono d’Italia. S’intendeva di tutti gli italiani, pure dei politici, che sicuramente nel dopoguerra potevano dirsi un po’ più sobri di quelli attuali, certamente non “francescani”, ma con un profilo più basso dal punto di vista dell’immagine.
Ma nel 2000 ecco che papa Giovanni Paolo II pensò bene che i politici avessero necessità di patrono tutto loro, specifico, come San Crispino per i calzolai o Santa Barbara per i pompieri e scelse Thomas More.
Guardare ciò che accade nelle nostre vite attraverso questi “simboli”, al di là del credo di ciascuno, dà sempre una prospettiva curiosa.
Thomas More, umanista, avvocato, scrittore e uomo politico inglese è colui che ha coniato il termine «utopia», indicando un’immaginaria isola dotata di una società ideale, di cui descrisse il sistema politico nella sua opera più famosa, «L’Utopia» appunto, del 1516. Qui troviamo alcune indicazioni che potrebbero seriamente ispirare molti statisti e che fanno di More un patrono non del tutto inadatto anche ai nostri politici: l’abolizione della proprietà privata innanzitutto, che nell’Inghilterra dell’epoca era rappresentata dalla enclosures, e l’abolizione della pena capitale per il furto, aumentato esponenzialmente come diretta conseguenza della recinzione dei terreni demaniali.
Sull’isola di Utopia la proprietà privata è vietata per legge e la terra deve invece essere coltivata, a turni di due anni, da ciascun cittadino, nessuno escluso: tutti hanno un lavoro, di 6 ore al giorno; nel tempo libero, tutti i cittadini possono dedicarsi alle proprie passioni .
Questo ed altro stava nella mente del patrono dei politici. Idee non del tutto inconciliabili con quelle del patrono del popolo italiano.
C’è da augurarsi che nelle altissime sfere celesti i due si mettano a tavolino e programmino un piano comune da comunicarci al più presto, prima che si succedano ancora fantasiosi statisti la cui Utopia finisce sempre per essere un semplice cavallo di Troia di istanze particolari.
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