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Del razzismo ovvero L’arte di tirarsi la zappa sui piedi

illustrazioni da trattato geografico del 1853, elaborazione ©FototecaGilardi

L’umano è multiforme e in questo sta la sua bellezza.
No, non è una citazione.
Io trovo che la bellezza, in questo mondo in cui tutto si “appiattisce” (dai capelli delle ragazze alle opinioni politiche, fino al tracciato neuronale del cittadino medio) sia invece nelle “asperità”.
Ecco una storia.
Un’atleta inglese di enorme talento sposa un italiano. Decide di gareggiare per l’Italia e porta importantissimi riconoscimenti sportivi al nostro paese. È così bella e simpatica, così amata dalla gente che diventa per un breve periodo anche attrice di fiction: interpreta un’immigrata che nel nostro paese trova un lavoro da domestica. Molto strana la scelta degli sceneggiatori, ma evidentemente ritengono abbia le physique du rôle della domestica. Ha una figlia, Larissa, con la quale partecipa a una deliziosa pubblicità di una merendina. Tutti comprano la merendina attirati dal solare quadretto familiare. È il 2005.
Larissa, a 15 anni (anno 2018) stabilisce il record di salto in lungo nel pentathlon femminile.
Risultato eccezionale, ma una parte del paese insorge coprendo la ragazza di insulti razzisti. Perché?
… perché la sua pelle non è proprio bianca-bianca. Quindi lei “non può essere davvero italiana”.
Larissa è la figlia di Gianni Iapichino, ex campione italiano di salto con l’asta e di Fiona May, campionessa mondiale e atleta olimpionica di origine inglese. Larissa non sarebbe italiana soltanto per uno “ius soli” (perché nata qui), ma anche per uno “ius sanguinis” (perché suo padre è italiano).
Tuttavia sul web corrono commenti di un tale livello da ricordare da vicino il Mein Kampf, prese di posizione di un’intolleranza “a prescindere”: sorda a qualunque ragionamento, cieca ad ogni evidenza.
E di fronte all’assurdità di certe reazioni, a me viene in mente il celebre film “Indovina chi viene a cena”. Una pellicola del 1967 che racconta di un matrimonio misto.
Cinquant’anni fa … mezzo secolo fa, i discendenti degli ex schiavi neri d’America, erano finalmente integrati tanto da potersi sposare con i bianchi (e viceversa) senza conseguenze penali. Grande conquista di civiltà dopo secoli di schiavismo, di colonialismo e dopo la parentesi nazista che tanti morti innocenti aveva fatto, solo perché una parte dell’umanità aveva deciso quale dovesse essere l’unico “modello umano” degno di questo nome.
Da allora abbiamo potuto respirare il vento della libertà, ma solo per pochi decenni.
Ora la cappa del razzismo torna a stendersi su di noi, greve, fredda, violenta e ignorante.
C’è chi la cavalca e c’è chi la combatte, ma è indubbio che il problema dell’”identità nazionale”, come ha fatto da incubatrice ai fascismi del Novecento, fa da incubatrice a questi nuovi fascismi del XXI secolo.
L’identità è il problema.
Il bisogno di essere identici, il bisogno di appartenenza a un gruppo definito, con un confine che si possa chiudere col filo spinato, con un muro, per separarsi dagli “altri”. Quegli “altri” che spesso ai nostri occhi terrorizzati, diventano bestie, non-umani solo perché non sono “identici” a noi, e quindi (nel non-ragionamento del nuovo, come del vecchio razzista) possono essere trattati come animali.
Anzi, come trattavamo un tempo gli animali, perché oggi alcuni sentono come più “simile” il loro animale domestico, piuttosto che un certo tipo di straniero.
Nonostante la cultura, gli studi, la circolazione sempre più rapida e globale delle informazioni, nell’uomo resta il bisogno di giudicare per categorie, semplificando nel modo che gli resta più moralmente comodo.
Dobbiamo ancora ricordare “la guerra tra poveri”? Le scelte economiche globali che ci rendono tutti schiavi? La forbice che si allarga tra i miliardari e i “derelitti”? Le vere cause delle migrazioni? La colpevole sottovalutazione del disagio dei lavoratori europei? Il lassismo con cui si lasciano andare in malora secoli di conquiste civili?
Tutto inutile. Quando la paura prende la pancia il poco raziocinio di cui siamo capaci come genere umano, si dissolve.
L’identità è il problema.
Ma l’identità è anche la soluzione.
Saper rispondere in modo sicuro e sereno alla domanda “Chi sono io?” potrebbe disinnescare quel mostro che cova dentro ognuno di noi. Non sono i confini del nostro paese ad essere labili, a lasciar passare “corpi estranei”, ma sono le nostre personalità fluide, senza principi, senza morale, senza etica, senza certezze, senza talento, senza ambizioni, senza progetti, senza voglia, senza speranza.
Molto più facile essere razzisti.

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