Cinquecento anni fa, il 6 aprile 1520, moriva a Roma appena trentasettenne Raffaello Sanzio, da poco giunto all’apice della sua carriera, maestro di una fiorente scuola che nel giro di pochi anni, influenzerà gli artisti di tutta Europa con il suo inconfondibile stile.
Tumulato nel Pantheon in un monumentale sepolcro sul quale troneggia uno dei suoi soggetti preferiti (una Madonna con Bambino) viene ricordato con un epitaffio, scritto dal poeta Pietro Bembo, che dà la misura di ciò che il giovane e inarrivabile pittore rappresentava per i suoi contemporanei: “Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette, mentre era vivo, di essere vinta; ma ora che è morto, teme di morire”.
Racconta il Vasari, alimentando la leggenda intorno alla straordinaria personalità dell’artista urbinate, che Raffaello era nato il giorno del Venerdì Santo del 1483 (un 6 aprile, alle tre di notte) e così il Venerdì Santo dell’anno 1520 (un 6 aprile alle tre di notte) aveva lasciato questo mondo.
Orfano di entrambi i genitori a soli 11 anni si era ritrovato a gestire la bottega di famiglia insieme ad alcuni collaboratori del padre. Urbino era all’epoca un polo artistico di altissimo livello e l’adolescente Raffaello soltanto sei anni più tardi era divenuto talmente abile da firmare le numerose opere commissionategli in tutta l’Umbria come “magister”, cioè come “maestro”. Talentuoso e avido di apprendere, appena ventenne si era trasferito a Firenze per carpire i segreti dell’arte dei due più grandi maestri del tempo: l’anziano Leonardo da Vinci e il giovane Michelangelo Buonarroti. Con il secondo lavorerà gomito a gomito pochi anni più tardi, a Roma, scontrandosi (più per colpa del Bramante che propria) nel corso dei lavori commissionati da Papa Giulio II per la ricostruzione della Basilica di San Pietro, per la realizzazione degli affreschi della Cappella Sistina (affidati a Michelangelo) e per quelli delle stanze della Segnatura (affidati a Raffaello), dove il giovane urbinate omaggia comunque Michelangelo come suo maestro, ritraendolo nei panni del filosofo Eraclito.
Esperto di architettura e profondo conoscitore dell’antichità Raffaello, sebbene sia ricordato essenzialmente come pittore, con il passare degli anni si dedica sempre più a nuovi interessi, delegando ai suoi numerosi collaboratori e allievi, l’esecuzione di gran parte delle opere pittoriche che continuano a essergli commissionate. Nel 1514, alla morte di Bramante, Raffaello è nominato al suo posto come “architetto di San Pietro” dal nuovo papa Leone X e dopo la partenza da Roma del Buonarroti, non ha più rivali in Vaticano.
Grande appassionato di archeologia, si fa aiutare dall’amico Baldassarre Castiglione a convincere il Papa ad affidargli l’immensa opera di mappatura di tutte le antiche rovine della città: Leone X lo nomina “presidente di tutti i marmi e di tutte le pietre che si scaveranno in Roma” e “presidente di tutte le antichità romane”. Con la benedizione papale, amato e osannato tutta la corte vaticana, Raffaello completa in breve tempo una ricostruzione filologica dei ruderi e traccia una pianta di Roma antica divenendo di fatto il fondatore della moderna scienza archeologica e ponendosi tra i primi studiosi a dettare i fondamenti dell’arte del restauro.
Quando nelle prime ore del 6 aprile 1520, dopo due settimane di febbre, Raffaello Sanzio muore, con lui scompare un genio che non sarà eguagliato da nessuno dei suoi numerosi allievi in quanto a originalità, delicatezza e ingegno. Il mondo sembra perdere una luce e la sua scomparsa si ammanta di leggenda: si racconta che, come avvenne alla morte di Cristo, al momento della morte di Raffaello la terra abbia tremato e che il papa, terrorizzato, sia scappato via dalle sue stanze. Raffaello è visto come una figura divina: amabile, gentile, bello, talentuoso, modesto, buono e la sua morte prematura non può che essere foriera di sventure. Solo pochi anni più tardi quella stessa città che lo aveva visto splendere, verrà messa a ferro e fuoco dai feroci lanzichenecchi protagonisti del tragico Sacco di Roma del 1527.
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