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Buttare o riparare?

La bottega del calzolaio,  fotografia del 1897 elaborazione ©Fototeca Gilardi

Nonostante da decenni le industrie sfornino prodotti “a scadenza”, ancora qualcuno se ne stupisce.
Le recenti multe comminate ad Apple e Samsung per aver diffuso aggiornamenti che rendono artificialmente vecchi gli smartphone, hanno dimostrato una volta per tutte che l’obsolescenza viene accuratamente programmata soprattutto nel settore tecnologia o su beni di grande valore. Che dire ad esempio del ricambio forzato di automobili in base ad un calendario a tappe già stabilito fino al 2025, per cui automobili che acquistiamo oggi, sono destinate a non poter più circolare fra due o tre anni? Uno si chiede perché vengano prodotte, a questo punto. Ma è chiaramente una domanda retorica. La durata dei beni, è un “lusso” che le aziende non vogliono permettersi.
Ad un certo punto, nella storia, si è deciso di accorciare scientemente il ciclo di vita di molti oggetti. Uno dei casi più eclatanti è quello della lampadina a incandescenza. Quando, nei primi anni del Novecento, fu inventata la lampadina, nel giro di breve tempo tecnici ed ingegneri, cercando i materiali più durevoli e resistenti, riuscirono a renderla in grado di funzionare per mille ore, poi per millecinquecento, duemila, duemilacinquecento: un “miracolo tecnologico”, ma un disastro commerciale. Fu così che i produttori del settore si organizzarono in un cartello e, già negli anni Venti, stabilirono di produrre lampadine con un’autonomia massima di mille ore, prevedendo penali per chi si fosse azzardato a mettere sul mercato lampadine durevoli. Lo stesso avvenne nell’industria dei collant, nati molto resistenti e divenuti delicati come ali di farfalla per rispondere alle esigenze di crescita, costante e illimitata, dei profitti delle aziende.
Questo, insieme all’accentramento delle attività produttive e commerciali nelle mani di pochissimi, è stato un cambiamento epocale capace di modificare l’intero sistema economico che un tempo poggiava sulle spalle di molte piccole aziende, di commercianti diffusi sul territorio e di artigiani addetti alle riparazioni.
Oggi i pezzi di ricambio sono diventati “merce rara” e quando non sono rari, sono così costosi che conviene “buttare e ricomprare nuovo”. A volte non è proprio così, ma ormai l’idea è entrata nell’opinione comune. Riparare anche un semplice paio di scarpe è un gesto così anacronistico che a pensarci viene un po’ di tristezza.
Un tempo era possibile aggiustare sedie e ombrelli, affilare coltelli e forbici; gli abiti, anche quelli dei miserabili, avevano una tale qualità rispetto ai nostri, che le stoffe potevano essere riutilizzate più e più volte. Alzi la mano chi di noi non ha ancora in casa pezzi di vecchie lenzuola tessute a telaio dalle bisnonne, oggi così preziosi da essere oggetto di “caccia” in solai e mercatini, da parte di pochi superstiti appassionati.
Fino al boom economico in una casa tutto era riparabile, persino i piatti e gli oggetti in terracotta, e fino a pochi decenni fa persino prodotti tecnologici, come frigoriferi, TV, lavatrici.
Non si può certo avere nostalgia della vita terribilmente faticosa delle nostre antenate, la diffusione degli elettrodomestici è stato un vero affrancamento dalla schiavitù per le donne, però l’ammodernamento è andato di pari passo con uno spreco forzato che non entusiasma tutti e di cui, oggi, iniziamo a pagare lo scotto.
E il conto è salatissimo.
Pensiamoci, ora che il “black friday” (la nuova, assurda celebrazione collettiva) è alle porte.

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