I Gonzaga se li facevano mandare fino a Mantova da Casale Monferrato, mentre gli Sforza rifornivano la loro corte milanese con regolari invii da Tortona. Le cucine rinascimentali non potevano restare a corto di tartufi, prelibatezza delle nostre terre e da tempi immemorabili, tra i cibi più ricercati al mondo. Sebbene si trovino citati per la prima volta nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), si ritiene che questi preziosi funghi, che nascono tra le radici delle querce, dei noccioli, dei carpini, fossero già conosciuti diversi secoli prima dagli Etruschi e, ancora più indietro nel tempo dagli Egizi e dai Sumeri. Il faraone Cheope pare consumasse il tartufo cotto nel grasso d’oca, e già per gli antichi greci era associato alla dea dell’amore, per le sue proprietà afrodisiache, ma si ritiene che allora i tartufi non fossero quelli consumati oggi , ma normali funghi ipogei come le terfezie, i cosiddetti “tartufi delle sabbie”, molto meno profumati e pregiati.
In epoca romana il consumo di tartufo è documentato nel De re coquinaria del gastronomo Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Plinio, il quale presenta diverse ricette a base di tartufo e, come Plutarco di Cheronea e Giovenale, ne associa la comparsa ad un intervento soprannaturale del dio Giove che scagliando un fulmine nei pressi di una quercia, provocava la formazione del fungo sotterraneo, anch’esso ritenuto afrodisiaco per l’associazione al padre degli Dei celebre per la sua brama amorosa.
Durante il Medioevo, forse proprio a causa della sua fama di “eccitante”, il consumo del tartufo sembra diminuire sebbene anche Petrarca ne esalti le virtù culinarie, tuttavia è proprio in un codice medievale, il Tacuinum sanitatis, risalente al XIV secolo, che troviamo tracce del moderno nome del tartufo in una tavola miniata che ne illustra la raccolta, sovrastata dalla scritta terra tufule tubera: questa scritta secondo lo storico Giordano Berti, ricollega l’origine del nome alla somiglianza del tubero con il tufo, pietra che abbonda nell’Appennino centrale, da sempre zona tipica di raccolta di questo prezioso fungo.
La vera consacrazione per il tartufo arriva però, come si diceva all’inizio, in epoca rinascimentale che vede Caterina de’ Medici introdurne l’utilizzo alla corte francese e Lucrezia Borgia farne uso nelle sue leggendarie avventure amorose.
È risaputo che in passato, come testimoniato dal Platina, la ricerca del tartufo era affidata a maiali tenuti al guinzaglio e portati per il bosco, o meglio alle scrofe, capaci di fiutarne l’odore (che ricorda gli ormoni secreti dal maschio) anche 3 metri sotto terra. Questa attività era diventata uno dei passatempi preferiti dai nobili nelle corti europee tanto da obbligare presto la sostituzione dei maiali con i più eleganti cani da tartufo, ma gli appassionati tartufai fuori dalle corti si avvalsero dei maiali fino al XIX secolo, spendendo moltissimo per acquistarne esemplari abili alla ricerca.
Due celebri artisti appassionati di cucina, Gioacchino Rossini e Alexandre Dumas, erano così tanto golosi di questo cibo da battezzare il tartufo rispettivamente “il Mozart dei funghi” e “il Sancta Sanctorum della tavola”, mentre Lord Byron, nel suo delirio romantico, ne teneva uno sulla scrivania affinché la Musa della Poesia attirata dal suo profumo, fosse persuasa ad avvicinarsi per ispirarlo.
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