Ogni 25 novembre si celebra nel mondo la giornata internazionale contro la violenza verso le donne. Immancabile corollario di questa ricorrenza è la voce di chi si erge a difesa degli uomini che subiscono violenza dalle donne, voce che sembra apparire soltanto in questa occasione per poi tacere tutto il resto dell’anno, come ad insinuare che non esiste in realtà una “questione di genere” nel discorso sulla violenza. Eppure i numeri parlano chiaro, basterebbe considerare un solo dato per comprendere immediatamente il fenomeno: nel 2020 in Italia l’89 % delle donne vittime di omicidio volontario sono morte per mano del partner o ex partner, per mano di un familiare o di un conoscente, quasi sempre maschio (94% dei casi) e la metà delle volte dopo un lungo periodo di maltrattamenti.
Questo cosa vuol dire?
Vuol dire che c’è una correlazione significativa tra il genere della vittima e la scelta di uccidere da parte dell’assassino.
Vuol dire che proprio in quanto femmine, abbiamo (rispetto agli uomini) una probabilità infinitamente più alta di morire per mano di una persona che ha un rapporto affettivo con noi e che questa probabilità si fonda su una cultura che asseconda sotterraneamente la violenza sulla parte femminile dell’umanità.
Se consideriamo che “subire violenza” non è soltanto essere uccise, ma anche sistematicamente venire picchiate o aggredite e ferite a parole, essere rinchiuse, private della libertà e stuprate, creando una sottomissione fisica e psicologica, capiamo bene come il fenomeno raggiunga vette preoccupanti.
Nel 2018 circa 379 milioni di donne nel mondo hanno subito violenze fisiche e/o sessuali da parte del partner. Trecentosettantanove milioni. È un numero che la mente rifiuta di accettare, una follia, uno scenario da martirologio cristiano, ancor più assurdo per il fatto che le vittime (a differenza delle antiche martiri, spesso a loro volta stuprate o costrette a repellenti matrimoni) non muoiono immolandosi per la propria fede, ma soccombono senza un perché, a volte condividendo lo stesso punto di vista del loro aguzzino.
Affermare che esiste una violenza di genere, cioè una cultura che avalla l’idea che tutto ciò che rientra nell’area del femminile è campo di conquista, di battaglia e di dominio da parte di un certo preciso tipo di maschile, è solo il primo passo per disinnescare questa tragedia sociale che affonda le sue radici in un passato millenario, ormai fonte di sofferenza per tutti.
Auspichiamo forse una battaglia comune che difenda ogni vittima, donna o uomo o chi non si riconosce in alcun genere? Benissimo, allora coniamo una parola nuova che identifichi allo stesso modo il fragile, il debole, l’oppresso, l’individuo che viene vissuto culturalmente come bersaglio e come capro espiatorio.
Fino ad allora celebreremo tutti insieme il 10 dicembre la Giornata mondiale dei Diritti Umani, mentre il 25 novembre resterà la giornata in cui ricorderemo come esempio di violenza di genere le sorelle Mirabàl: tre giovani donne mogli di prigionieri politici in un regime dittatoriale, che sul cammino verso il carcere non arrivarono mai a visitare i loro compagni, ma furono rapite, stuprate, torturate, uccise a bastonate e buttate in un burrone.
Annientate non in quanto criminali, non perché pericolose avversarie politiche, ma perché donne, femmine, libere, fiere, indifese “prede naturali” di una cultura misogina.
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