Il Carnevale nasce con una carica “rivoluzionaria” di cui ormai si è persa memoria. Indossare una maschera rappresenta da sempre per l’uomo un momento di liberazione dal quotidiano, l’apertura di una possibilità, l’assunzione di un ruolo differente e spesso irraggiungibile in vesti normali. Questa festa affonda le sue radici nell’antichità e si rifà ai Baccanali e soprattutto ai Saturnalia dell’Antica Roma in cui era usanza che i ruoli di ricco e povero, semel in anno (solo una volta all’anno), si invertissero permettendo alla popolazione di sfogare i propri istinti liberamente, senza freni. A quel tempo la maschera era qualcosa di molto diverso da ciò che divenne in seguito; possiamo intuirne le antiche valenze rituali attraverso i tanti Carnevali tradizionali come quelli che ancora oggi si festeggiano a Bagolino, a Canale d’Agordo, a Sappada, a Schignano in cui vediamo scontrarsi due gruppi di personaggi abbigliati con colori e simboli “demoniaci”. Nel Medioevo l’esplosiva carica dionisiaca del Carnevale iniziò a ricadere sotto il controllo ecclesiastico che la svuotò dell’originario carattere sovversivo, senza però riuscire a dissolverlo totalmente: ne ritroviamo traccia infatti, in alcune maschere mutuate dalla Commedia dell’Arte tra il XVI e il XVII secolo che, grazie al loro piglio dissacratore e popolare divennero addirittura, durante il Risorgimento, simbolo di lealtà patriottica e di ribellione al giogo straniero. In particolare sono due i personaggi che incarnarono meglio questo ruolo: Gianduja da Callianetto, la maschera piemontese più celebre, nata dalla fantasia del burattinaio Giovan Battista Sales nel 1808, e Meneghin Pecenna, maschera milanesissima, delineata nel Seicento da Carlo Maria Maggi e ridefinita nell’Ottocento da Carlo Porta: si racconta che nel 1848, durante le Cinque Giornate di Milano gli insorti portassero sulle barricate la maschera di Meneghino come simbolo di ribellione. Servitore bonario, irriverente, schietto e sbrigativo, dotato di grande senso morale Meneghino ha un cognome, Pecenna, che deriva da “pettinare”, inteso in senso figurato di strigliare sarcasticamente i costumi e i comportamenti. In molti spettacoli, durante la dominazione austriaca, si mettevano in bocca a Meneghino discorsi dai quali traspariva grande disprezzo per la dominazione straniera; la regia-imperial polizia austriaca non poteva avere gli estremi per arrestare un burattino, una maschera, quindi a volte veniva utilizzato per trasmettere messaggi segreti ai patrioti risorgimentali. Un ruolo analogo ebbe Gianduia per i Piemontesi. Gioan d’la douja, cioè Giovanni del boccale, a causa della sua passione per il vino, nasce dopo varie disavventure legali del suo creatore G.B. Sales che, scampato ad una condanna a morte per aver tramato contro lo Stato attraverso le battute dei suoi spettacoli, decise di dar vita a Gianduja e di dotare il nuovo personaggio di una vis polemica ancora più forte della precedente, ponendo addirittura una coccarda tricolore sul tricorno che il burattino aveva in capo. Per i piemontesi Gianduja rappresentava il loro spirito più autentico, ingenuo, coraggioso, dedito ai piaceri semplici della vita e devoto ai Savoia. Nel 1848 viene promulgato lo Statuto Albertino e grazie alla conseguente libertà di stampa Gianduja diventerà protagonista delle vignette satiriche del “Fischietto” e del “Pasquino” uscendo dal teatro dei burattini ed entrando decisamente in quello della politica.
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