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L’effetto spettatore

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Quasi ogni giorno dobbiamo constatare quella che sembra una crescente indifferenza che affligge coloro che si trovano ad essere testimoni di atti di bullismo, di violenza domestica, di aggressioni per strada, di malori e incidenti che capitano a sconosciuti. I media cavalcano l’onda e strumentalizzano come sempre la paura per vendere più copie, o aumentare lo share e noi nel frattempo iniziamo a credere di vivere in un mondo alla deriva.
In realtà a me viene in mente subito una parabola evangelica, quella del buon Samaritano, unico ad intervenire per soccorrere un uomo in fin di vita capitato sulla sua strada. Duemila anni fa era già un topos tanto da diventare una parabola, figuriamoci se si tratta di fenomeni nati ora nella “società liquida”, tuttavia è forse più interessante ricorrere alla scienza per capirne i meccanismi.
Nel 1964, sulla scia dello sdegno suscitato da un’aggressione che era finita in omicidio nonostante la presenza di decine di testimoni, due psicologi sociali americani decisero di intraprendere una ricerca per approfondire le cause di questa generale e incredibile “omissione di soccorso”.
I due studiosi, John M. Darley e Bibb Latané, ritenevano che la teoria degli esimi colleghi Milgram e Hollander non fosse sufficiente per spiegare come mai così tanti testimoni del delitto fossero rimasti sordi ai richiami di aiuto di Kitty Genovese, quella notte del 13 marzo 1964.
Milgram e Hollander (autori di celebri esperimenti sull’obbedienza all’autorità, mentre si celebrava il processo Eichmann e Hannah Arendt pubblicava la sua “Banalità del male“), sostenevano infatti che la persona che assiste a una situazione di emergenza, vive un conflitto interiore tra le norme morali (che le imporrebbero di aiutare gli altri) e un sentimento di forte paura, poiché non sa cosa stia accadendo e che pericolo possa costituire il fatto di intervenire.
Darley e Latané, convinti di poter approfondire le cause, raccolsero così una settantina di studenti universitari e decisero di sottoporli ad un esperimento, ipotizzando che la scelta dell’omissione di soccorso fosse direttamente proporzionale al numero di persone che assistevano al delitto: “più gente può intervenire, meno io mi sento obbligato a farlo”.
I ragazzi vennero informati che si trattava di una discussione sulla vita universitaria e che, per garantire loro l’anonimato, avrebbero parlato agli altri attraverso un citofono, ciascuno da solo in una stanza diversa. Ad un certo punto uno degli studenti (in realtà una voce registrata) si sente molto male e chiede aiuto. Per un paio di minuti i ricercatori fecero in modo che ai ragazzi in ascolto fosse impedito di comunicare tra loro; l’unica cosa che cambiava nei vari esperimenti era la grandezza del gruppo: da 2 a 6 persone assistevano al malore.
È così che i due psicologi individuarono quello che verrà tristemente battezzato “l’effetto spettatore”: il soccorso veniva prestato con maggiore frequenza (l’85% delle volte) quando lo studente in ascolto era in compagnia di un solo altro studente, mentre la probabilità di intervento si riduceva drasticamente (al 31%) quando il soggetto sapeva di far parte di un gruppo più grande, arrivando ad azzerarsi dopo 45 secondi dall’inizio della crisi, se il gruppo aveva almeno 5 elementi.

Darley e Latané conclusero che le norme sociali che ci spingono ad aiutare, sono indebolite da altri fattori oltre alla paura, principalmente dalla presenza di altri osservatori, il che provoca una “diffusione della responsabilità” e la conseguente inazione, ma anche dal dubbio che qualcun altro (più competente, più informato, più coraggioso di noi?) sia già intervenuto o possa intervenire al nostro posto.
Già all’inizio nel secolo scorso l’antropologo Gustave Le Bon, studiando la psicologia della folla, aveva formulato la “teoria della deindividuazione”, secondo la quale gli individui di un gruppo coeso (la folla, appunto) tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando addirittura la comparsa di impulsi antisociali.
Applicando questi principi alla situazione attuale, che ci vede continuamente spettatori virtuali di ogni sorta di violenza e di profonde sofferenze altrui, ma con la sensazione di far parte di un mondo globalizzato, dove il web crea un nuovo senso di appartenenza, la conseguenza logica è ciò che osserviamo ogni giorno: l’interconnessione di miliardi di persone, senza una parallela strutturazione interiore  individuale, rischia di portare con se’ l’azzeramento della responsabilità personale rendendoci solo inutili (e pericolosi) guardoni.

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