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Le guide di Babele

Come è stato possibile, dopo la leggendaria caduta di Babele, comunicare tra popoli di lingua diversa, quando ogni cultura era totalmente autoreferente e dominava il puro spirito di conquista?
Si sa che interpreti e traduttori sono sempre esistiti, anche se spesso si trattava di prigionieri appartenenti ai popoli sconfitti, forzati ad apprendere l’idioma del conquistatore, ma la prima testimonianza storica sull’uso di mediatori linguistici risale al 3000 a.C. ed è rappresentata da un’iscrizione sulle tombe dei Principi di Elefantina, un’isola del Nilo al confine con la Nubia, premiati dal Faraone d’Egitto con una speciale carica onorifica, grazie al loro bilinguismo, molto utile nelle trattative commerciali con le regioni confinanti.
Anche nell’antica Roma, dotata di un esercito multietnico, di un Senato multietnico e di una popolazione multietnica, l’uso di interpreti era frequente sia per coordinare le legioni, sia nei negoziati di pace, sia nella abituale attività politica.
In ogni caso per molti secoli la competenza multilinguistica venne considerata accessoria ad altri incarichi o mestieri, da quello del soldato a quello del burocrate o del diplomatico, ma iniziò ad assumere un’importanza capitale dopo il XIII secolo, con l’inizio delle massicce esplorazioni geografiche in territori completamente sconosciuti.
Il temerario frate Giovanni da Pian del Carpine, precursore dei Polo in oriente, inviato in Mongolia nel 1245 da Papa Innocenzo IV in missione diplomatica, raggiunse la corte del nipote di Gengis Khan senza nessun supporto, se non la compagnia del confratello Benedetto Polacco che avrebbe dovuto fungere da mediatore linguistico.
Nel Medioevo c’erano già alcune lingue, come il latino, il greco l’arabo che venivano utilizzate tra popoli di provenienza diversa, come accade oggi con l’inglese, ma giungendo in luoghi del tutto sconosciuti la faccenda si complicava.
I Polo, una trentina di anni dopo frate Giovanni, comunicavano con gli abitanti del vicino oriente in lingua persiana, come la maggior parte dei commercianti dell’epoca, ma giunti in Cina appresero sul campo la nuova lingua.
Cristoforo Colombo, invece, convinto di giungere in India, volle al suo fianco Luis de la Torre, preparatissimo in molte lingue esotiche fra cui l’ebraico, l’arabo e il caldeo. Possiamo immaginare il suo sconcerto quando capì che, nel Nuovo Mondo, gli sarebbero servite a ben poco e che avrebbe dovuto “istruire” degli autoctoni.
Celebre è rimasta l’interprete che aiutò Hernan Cortès nella sua conquista: la Malinche (chiamata anche Malintzin, Malitzine o doña Marina), una nobile azteca venduta ai Maya da bambina, già bilingue all’arrivo degli spagnoli. Ceduta agli invasori, venne scelta da Cortès come interprete azteco-maya, ma in brevissimo tempo imparò anche lo spagnolo diventando un insostituibile aiuto per il conquistador.
Innumerevoli sono anche le testimonianze sulla presenza di interpreti che mediarono tra i bianchi e i pellerossa, quando nacquero gli attuali Stati Uniti d’America a scapito delle popolazioni indigene, tra il XVII e il XIX secolo.
La vera professione di interprete però nacque molto più tardi, i primi decenni del novecento, per facilitare le comunicazioni tra i vertici politici e militari durante la prima guerra mondiale e durante la successiva Conferenza per la Pace di Parigi nel 1919, in cui si dovettero mettere in comunicazione i rappresentanti di ben 36 diversi paesi.

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