A volte nel corso della storia si creano delle alchimie che sfociano in fenomeni curiosi.
Questo è ciò che accadde nell’Europa del Settecento quando la consuetudine a contrarre matrimoni combinati, un esubero di maschi nobili senza prospettive ed esigenze di libertà femminile sfociarono nell’istituto del cavalier servente. Nato come una figura preposta alla conservazione della virtù della sposa e al servizio della stessa, il cavalier servente o cicisbeo (la cui etimologia si fa risalire al cicaleccio delle chiacchiere e dei pettegolezzi) con il tempo si trasformò in un amante ufficiale, citato direttamente nel contratto matrimoniale.
In un’epoca in cui spesso alle giovani nobildonne capitava di contrarre un matrimonio (d’interesse ovviamente, come erano tutte le unioni tra aristocratici) con un marito anziano e per nulla interessato alla vita mondana, o un marito giovane, ma già occupato con amanti e affari di famiglia, la possibilità di essere accompagnate ovunque volessero da un uomo, che aveva l’unico compito di dedicarsi a loro, rappresentò per le donne ancora sottoposte all’autorità maschile, un deciso passo verso la libertà. Paradossalmente questa libertà era diretta conseguenza del matrimonio privo di amore, di una concezione “contrattuale” del legame coniugale, infatti all’epoca un marito che affiancava la moglie in ogni occasione mondana non era ben visto. Solitamente i contatti tra coniugi, in ambito nobiliare, si limitavano alle occasioni ufficiali e all’unione notturna destinata alla procreazione degli eredi.
Certo all’inizio il cavalier servente non era un aitante “giovin signore” (come lo definisce Parini, che ne disprezza la figura così come disprezza la nobiltà tutta, alla quale anche lui appartiene), ma un anziano parente del marito addetto alla sorveglianza della nobile dama, alla protezione della sua virtù e gravato da tutte quelle incombenze di cui anche oggi un marito vorrebbe fare a meno: accompagnare la donna nella scelta degli abiti e negli acquisti, scortarla ai balli e nei luoghi di divertimento, sostenere conversazioni con lei. Progressivamente però fu chiaro che le attività della dama richiedevano la presenza di un giovane e brillante conversatore, di qualcuno che fosse in grado di ballare con maestria, di passare molto tempo ai tavoli da gioco, di non annoiare la sposa, di presentarsi in modo elegante, servizievole e di essere una specie di “sostituto” del marito. Niente di meglio, allo scopo, che una massa di figli cadetti della nobiltà europea che, per nulla inclini alla carriera ecclesiastica o militare (uniche alternative per chi non ereditava parte del patrimonio paterno, destinato solitamente al primogenito maschio) sceglievano di buon grado di vivere un’esistenza di piaceri accanto a donne con le quali ben presto si sviluppava un rapporto tutt’altro che casto. Un esempio per tutti è Giovanni Verri, cavalier servente della contessa Giulia Beccaria sposa dell’anziano conte Manzoni e, si mormorava, vero padre di Alessandro.
Si dice che la tradizione dei cicisbei fosse nata a Genova, nel XVI secolo, nelle famiglie dei mercanti i quali dovevano stare a lungo lontani da casa e quindi sceglievano degli ecclesiastici o dei parenti poveri per assistere le mogli in loro assenza. Nel XVIII secolo l’usanza era così diffusa (e trasformata) da presentare scene al limite del ridicolo, con dame seguite da vari cicisbei in preciso ordine gerarchico (dal preferito al cosiddetto “patito”), adulate e vezzeggiate, accontentate in ogni capriccio.
Una serie di doveri legavano la dama e il cavalier servente: lei non doveva avere confidenza che con lui, il quale a sua volta era sempre pronto ai cenni della donna, ad accompagnarla nelle visite, a passeggio, a teatro, oppure a portarle il libro delle preghiere da leggere in chiesa. Il cicisbeo doveva prevenire ogni desiderio della dama, essere attento e galante, darle suggerimenti, consolarla, non tradire mai i suoi segreti: la mattina assisteva alla sua toilette, la consigliava sugli abiti da indossare, a tavola sceglieva per la dama i bocconi migliori e durante la giornata giocava con lei per alleviare la sua noia, mentre la sera la accompagnava ai balli o ai tavoli da gioco fino alle prime ore del mattino. Un personaggio così era spesso un sollievo per il marito che, in caso di lite fra moglie e cavalier servente, tremava all’idea che il cicisbeo se ne andasse sbattendo la porta e cercava di metter pace tra i due.
È chiaro che il ruolo di “amante vicario” non fosse stabilito dal contratto matrimoniale, ma la vicinanza e la confidenza che si creavano tra giovane sposa e giovane cavaliere non poteva che sfociare facilmente in un rapporto amoroso e sessuale, un segreto di Pulcinella da tutti bene o male tollerato. Soltanto l’azione moralizzatrice della Rivoluzione francese e il successivo avvento del Romanticismo, con la sua enfasi sul matrimonio d’amore, mise fine a questa abitudine.
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