Vai al contenuto
Home » Blog » Indro … e i suoi fratelli

Indro … e i suoi fratelli

Colonialismo Italia - Africa Orientale - Il giuramento del pugnale delle Camicie Nere, 1935 - elaborazione ©Fototeca Gilardi

Possiamo anche fingere che l’unico soldato italiano coloniale macchiatosi di “Madamato” in Etiopia sia stato Indro Montanelli; possiamo accontentarci di protestare versando vernice sulla statua che lo ritrae, distogliendo lo sguardo dai cripto-pedofili contemporanei; possiamo evitare di osservare da vicino le centinaia di foto che testimoniano cosa è stato il colonialismo italiano in Africa, ma questo non potrà cancellare le atrocità commesse dai tanti sconosciuti soldati – i nostri nonni e bisnonni – la cui memoria ci ostiniamo a preservare usando un solo (celebre) capro espiatorio ormai defunto. Fare i conti con i mostri di casa nostra è troppo difficile e quindi, la buttiamo in caciara.
La pratica del “Madamato” (la compravendita e la convivenza more uxorio tra soldati coloniali e donne-bambine indigene) è una macchia indelebile anche nelle coscienze di molti anonimi militari che partirono volontari per l’Africa quando l’Italia volle lanciarsi nella conquista delle sue “terre al sole”.
Sono numerosi, noti e amaramente espliciti, i manifesti e le cartoline dell’epoca propagandati dal regime spesso sotto forma di foto etnografiche che testimoniano non solo l’abuso delle ragazzine africane da parte dei nostri soldati, ma anche l’utilizzo di questa “esca” come leva per indurre i giovani uomini a partire per la conquista della “bella Abissina”, non tanto per la gloria dell’Impero, quanto per la soddisfazione dei propri bassi istinti predatori.
La distribuzione di queste immagini femminili (per quei tempi esplicitamente erotiche), furono il preludio dell’odiosa pratica che vide i vertici militari italiani in Africa raccomandare l’acquisto di spose provvisorie illibate (quindi giovanissime) per evitare i contatti con le prostitute e la conseguente diffusione di malattie veneree nell’esercito. La pratica durò fino a quando il regime fascista non decise di scoraggiare il contatto con le indigene. Ovviamente non per tutelarle, ma per non contaminare la nostra “razza superiore”.
Ed è inutile disquisire sulla mentalità dell’epoca, sulle differenze culturali, sulle barbare tradizioni dei popoli indigeni: l’epoca non è poi così lontana e le tradizioni barbare, quando non ci facevano comodo, le abbiamo rigettate e combattute. Quegli uomini (e le loro mogli, i loro figli che attendevano a casa) non erano diversi da quelli di oggi e, nelle fila di quell’esercito c’è chi, anche allora, trovò odioso questo stupro legalizzato, così come lo troviamo odioso noi oggi.
… noi … non tutti, in verità. I predatori sono tuttora a caccia, lo sappiamo bene. Sono a caccia per le strade, sono a caccia nei quartieri poveri, volano in oriente a comprare bambine e bambini, ma nessuno pensa di mirarli con un bel gavettone di vernice rossa. Perché?
Perché imbrattare una statua è più comodo, una statua non reagisce. Il vandalismo ci fa sentire bene, ci assolve da azioni meno eclatanti e più efficaci, che sarebbero però spiacevolmente compromettenti.
Il gesto vandalico fine a se stesso trova poi il suo contraltare nel relativismo culturale e le due posizioni contrapposte finiscono per rappresentare soltanto le due facce della stessa medaglia, quella dell’ipocrisia.
L’unico vero riconoscimento che l’umanità pare meritarsi.

© riproduzione riservata

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *