Da sempre il momento della nascita è considerato un evento sacro. In molte parti del mondo è tradizione piantare un albero quando nasce un bambino, una pianta che viene scelta in base alle caratteristiche desiderate per il neonato. Spesso tra le radici dell’albero viene seppellita la placenta (considerata come un “gemello” del piccolo) oppure il cordone ombelicale che il bimbo perde dopo alcuni giorni, così da legare uomo e pianta per sempre. Tra i Maori della Nuova Zelanda si usa ancora seppellire la placenta e piantarci sopra una palma da cocco la cui crescita e salute potrà dare la misura dello stato del bambino nel corso del tempo, mentre il cordone ombelicale viene gettato in mare (per i maschi) o nelle lagune interne (per le femmine), con il chiaro intento di evocare nei primi il coraggio di allontanarsi avventurosamente e nelle seconde quello di restare attaccate ai luoghi di nascita.
Si sa che, già in epoca primitiva, durante il travaglio e il parto gli uomini provvedevano a tenere lontani gli spiriti maligni dal nascituro scuotendo sonagli all’esterno della capanna, mentre le donne della famiglia accompagnavano con canti la puerpera, dando la prima assistenza al bambino e ritualizzando il suo arrivo nella comunità. Generalmente il ruolo di ostetrica (dal latino obstetrix – “colei che sta davanti”) era ricoperto da una donna anziana della famiglia.
Le donne greche e romane non partorivano a letto, ma su una sedia a mezzaluna (la cosiddetta sedia ostetrica, in vigore fino al Rinascimento) affinché la levatrice potesse, dall’apertura sottostante, aiutare la dilatazione, afferrare il piccolo e, con una lama, ma spesso anche con strumenti più rozzi come un frammento di vetro, tagliare il cordone ombelicale. Sempre all’ostetrica era poi era affidato il compito di esaminare il neonato, per stabilire se fosse normale, dichiarandolo adatto o inadatto alla vita. Dopo l’esame il bambino veniva posto di fronte al pater familias affinché quest’ultimo lo riconoscesse sollevandolo da terra e invocando la Dea Levana (se maschio) o porgendolo alla madre per l’allattamento (se femmina), ma c’era sempre l’eventualità che il capofamiglia lo disconoscesse decidendo di esporlo, cioè di abbandonarlo. Questo rito del “sollevamento” del bambino come presentazione alla comunità è rimasto nelle usanze popolari fino a pochi decenni or sono, così come riti e magie per la protezione di madre e neonato. Probabilmente anche il termine “levatrice” deriva da questo gesto del levare in alto il neonato.
In Sardegna, quando ancora si partoriva in casa, la puerpera e il bambino venivano lavati con acqua e vino o acqua e sale allo scopo di proteggere la pelle e fortificare le membra (ma anche nel resto d’Italia c’erano usanze analoghe, come massaggiare le gambe dei bimbi con il vino per rinforzarle, ad ogni cambio di pannolino). Anche questa usanza ha radici antichissime, infatti lavare il neonato con acqua e vino, o acqua salata, era proprio degli spartani, mentre i Greci bagnavano il piccolo con la rugiada e lo ungevano con olio per poi fasciarlo, lasciando libero solo il sederino per la pulizia.
Nell’antica Roma il sale, dal potere purificatore, veniva posto sulle labbra del neonato, mentre il moncone del cordone ombelicale era cosparso di strutto e miele e stretto da una fascia. Per i Romani una precauzione speciale riguardava l’attribuzione del nome del piccolo. Innanzitutto era necessario attendere alcuni giorni (nove per i maschi e otto per le femmine) prima di dare il nome al neonato e l’evento costituiva un rituale a se’ stante. Nei giorni di attesa, puerpera e bambino venivano protetti da tre divinità che evocavano antichissimi riti agresti: Intercidonia (che colpiva la soglia con la scure), Pilumnus (che la colpiva con un pestello) e Deverra (che spazzava la soglia), divinità che dovevano tenere lontano Silvano, una malvagia creatura dei boschi.
Dopo questo periodo di attesa, madre, bimbo e familiari festeggiavano purificandosi con acqua sotto la protezione della Dea Nundina (la dea del nono giorno) e in questa occasione il bambino riceveva il nome, mentre il pater familias invocava su di lui la protezione dei Fata (le divinità del destino).
Questo rituale, che ricorda da vicino il nostro battesimo, era accompagnato da regali che consistevano soprattutto in ciondoli di ambra (cui si attribuiva il potere di combattere le malattie respiratorie e gli incubi notturni), piccoli gioielli dalle forme apotropaiche, bamboline snodabili consacrate a Venere, sonagli di terracotta ripieni di sassolini, ed amuleti vari per tenere lontani gli spiriti maligni, il più importante dei quali rappresentava il numero 13. L’usanza odierna di addobbare porte o finestre con un fiocco azzurro o rosa quando nasce un bambino, la dobbiamo invece agli antichi Greci che adornavano la porta di casa con ghirlande di ulivo per la nascita dei figli maschi e con bende di lana per le femmine.
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