Spesso usata in modo spregiativo per condannare una disponibilità interessata, l’espressione “do ut des” indicava, nel diritto romano, gli accordi in cui le due parti si scambiano vantaggi equivalenti, oppure la necessità che ad ogni “dare” corrisponda un “avere”.
L’origine di questo modo di dire risale a tempi antichissimi, in cui lo scambio commerciale all’interno di un’economia pre-monetaria, era regolato da quattro diverse tipologie di baratto: “do ut des” (ti dò merce, affinché tu dia a me una merce differente); “do ut facias” (ti dò merce in cambio di lavoro); “facio ut facias” (io lavoro per te e tu lavori per me); “facio ut des” (lavoro affinché tu mi dia merce, cioè ti pago della merce con il mio lavoro).
In realtà era una maniera equa e chiara di regolare la circolazione di beni e servizi.
Poi l’avvento della moneta cambiò tutto, ma con il passare dei secoli sembra che i due soggetti dell’accordo … non siano più tanto capaci di applicare questa semplice norma di equità.
Negli ultimi anni l’attenzione al riciclo e all’ambiente, la cultura del non-spreco e, non ultima, la voglia di soddisfare i propri bisogni anche in mancanza di denaro sembra aver riscoperto e reinventato queste quattro formule di antico “commercio”; così si moltiplicano gli incontri per scambiarsi scarpe, vestiti e accessori, oppure ci si “paga” un corso prestando del lavoro come volontari o si viaggia scambiandosi le rispettive case con turisti che stanno dall’altra parte del mondo.
Regolare i nostri rapporti economici e sociali secondo il “do ut des”, chiedendo cioè un giusto corrispettivo di ciò che diamo (lavoro, tempo, beni o altro) forse potrebbe rivelarsi, in fin dei conti, più “sano” dell’illusoria gratuità di cui sembra circonfusa, oggi, molta merce pubblicizzata e, purtroppo, anche il lavoro di giovani e non più giovani.
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