Prima dell’odierno tripudio di pulcini, fiori, coniglietti e uova, dove il giallo prevale su tutto, il colore della Pasqua fu per lungo tempo il viola.
Questo colore secondario, risultato di varie combinazioni di blu e rosso, venne scelto dai cristiani per i paramenti liturgici usati in Avvento e Quaresima. Cioè per onorare quei periodi di purificazione e penitenza che precedono la nascita e la morte di Cristo.
Colore bandito dall’ambiente dello spettacolo, il viola deve la sua fama negativa al fatto che nel Medioevo, in Quaresima venivano vietate tutte le esibizioni pubbliche.
Per gli attori e i saltimbanchi il “viola-Quaresima” divenne presto simbolo di fame certa. Per questo, ancora oggi nel mondo dello spettacolo, indossare un abito viola è considerato di malaugurio.
Non è ben chiaro invece il motivo per cui al viola sia stato attribuito questo significato penitenziale, di purificazione e di attesa.
Una teoria suggestiva collega l’uso del colore viola alla celebrazione di un antichissimo rito precristiano: il ver sacrum, la Primavera sacra, tipica delle antiche popolazioni dell’Appennino centro-meridionale.
Nei periodi di carestia, per scongiurare la fame nelle comunità, si celebrava questo rito durante il quale si offrivano in sacrificio al dio Mamerte i primi nati – vegetali, animali e umani – apparsi dal 1° marzo al 31 aprile.
Il sacrificio, nel caso dei bambini, consisteva nel consacrarli al dio e destinarli a un futuro di “emigranti” perché, giunti a 21 anni, erano costretti ad allontanarsi per fondare nuove colonie.
In questo modo la pressione demografica interna ai singoli villaggi sarebbe diminuita e i giovani avrebbero conquistato nuove terre.
Forse il senso di pericolo e di sacrificio del ver sacrum ha continuato a risuonare di generazione in generazione, colorando di viola molti secoli dopo, anche i successivi rituali di Pasqua.
La simbologia cristiana volle vedere nel viola l’unione tra il divino (blu) e l’umano (rosso).
Molte raffigurazioni della Passione presentano infatti Gesù con tunica rossa e manto blu (o viceversa). Ma spesso questa tunica nei dipinti diviene semplicemente viola, volendo sintetizzare in un solo colore la doppia natura – terrena e celeste – di Cristo.
Fu la cultura bizantina, erede dell’impero romano e custode dei dogmi cristiani, che utilizzò il colore viola per sottolineare l’origine divina del potere imperiale.
Viola era l’inchiostro con cui l’imperatore del Sacro Romano impero d’Oriente firmava i documenti ufficiali. Viola il trono su cui sedeva, viola le sue calzature (e anche quelle dei ribelli che volevano rovesciarlo). I Vangeli erano scritti in caratteri dorati su pergamena color porpora.
Sul porpora si pronunciò persino il terzo Concilio Ecumenico di Efeso quando stabilì di raffigurare Maria e Sant’Anna vestite di porpora “come segno della più alta venerazione“.
Già secondo Plinio questo tono del viola era segno di distinzione, tuttavia nella considerazione dello storico latino c’era ben poco spazio per il divino. Plinio faceva essenzialmente una considerazione economica: la “porpora di Tiro” era frutto di una tecnica così rara e dispendiosa, che soltanto persone di grande importanza e ricchezza potevano permettersi abiti di questo colore.
Alcuni imperatori romani avevano addirittura proibito ad altri cittadini di indossare vestiti porpora, pena la condanna a morte.
Così il viola rimase associato alla regalità per moltissimi secoli, tanto che persino le attuali corone reali inglesi presentano all’interno, un velluto di un bel viola cupo.
In realtà l’Inghilterra a un certo punto, divenne vittima di una vera “purple-mania”.
A metà Ottocento, senza un’apparente motivo, il magenta tendente al viola divenne il colore più alla moda tra i britannici. Giacche cremisi, redingote prugna, abiti color malva spopolavano. Ma cosa era successo?
Semplicemente, per la prima volta nella storia – e totalmente per caso – un chimico inglese aveva scoperto un modo economico per sintetizzare il colore viola.
Cercando di ricavare chinino dal catrame di carbone, William Henry Perkin, si trovò tra le mani una sostanza violacea totalmente inutile a guarire la malaria. Tuttavia si accorse che era capace di tingere perfettamente la seta senza scolorire.
Battezzò la sua fortuita invenzione “color Malva” e l’Inghilterra vittoriana se ne innamorò immediatamente. Nel giro di pochissimo tempo furono create con la stessa tecnica numerose sfumature di viola che si imposero per diversi decenni.
Persino la pittura fu influenzata dalla “moda del viola”. Nel 1881, Monet (entusiasta utilizzatore del Malva e derivati) dichiarò: “L’aria fresca è violetta. Fra tre anni, tutti lavoreranno con il violetto”.
E osservando i dipinti di molti impressionisti non si può fare a meno di notare come queste parole siano state profetiche. Il viola si diffuse rapidamente all’interno del movimento impressionista che lo elesse come colore dell’ignoto e delle emozioni, dando vita alla cosiddetta “violettomania”.
Persino le suffragette, nello stesso periodo, decisero di scegliere il viola come colore simbolo del movimento femminista, ma non dobbiamo farci trarre in inganno. La loro non fu una scelta dettata dall’estetica, ma un modo molto scaltro di veicolare uno slogan.
Una lotta come quella per il suffragio femminile, ad alta stigmatizzazione e parzialmente clandestina, doveva avvalersi di messaggi in codice riconoscibili soltanto da “addette ai lavori”.
Così le suffragette crearono un loro tricolore: verde (Green), bianco (White) e viola (Violet) le cui iniziali, in inglese, erano le stesse del motto “Give Women Vote”.
Ma questa combinazione di colori, esplicita sui volantini o durante le manifestazioni di piazza, non taceva neppure fuori dai luoghi della protesta.
Sotto forma di orecchini, spille, nastri, fiori, cappelli, il “GWV tricolore” occhieggiava quotidianamente sugli abiti delle donne favorevoli al suffragio, in una muta, ma eloquente comunicazione tra compagne di lotta.
© riproduzione riservata
>>> visita il nostro negozio online per leggere guardare ascoltare
fuori dai circuiti mainstream