Quando ero bambina ricordo papà e zii sfoggiare senza grandi turbamenti la cosiddetta “calvizie ippocratica” quella, per capirci, di chi conserva solo una corona di capelli sulla nuca, che oggi sembra scomparsa (insieme alle ascelle femminili non depilate).
Gli uomini del 21esimo secolo sono degli ipertricotici oppure dei pelatoni alla Montalbano, in sintonia con il nostro gusto estetico appiattito su estremi semplificanti, su modelli facilmente digeribili dai nostri “stomaci culturali” ormai avvezzi agli omogeneizzati. Ma la calvizie, insieme alla canizie, è da sempre un cruccio dell’umanità o, almeno, di quella parte dell’umanità che ha il tempo di farsene un problema.
Si racconta ad esempio che la regina Nefertiti, celebre per la sua bellezza, soffrisse di alopecia; il rimedio dell’epoca consisteva in una lozione di grassi animali di leone, coccodrillo, gatto, serpente, stambecco e ippopotamo, la cui ricetta è giunta a noi grazie al ritrovamento del papiro Ebers, in cui è contenuta anche una formula per bloccare la perdita di capelli, che mescolava dente d’asino e miele. Presso gli Egizi erano diffusi anche l’utilizzo di provvidenziali parrucche, diverse a seconda del rango di chi le indossava e le tinture a base di henné, le predilette di Ramsete II che si tinse i capelli fino a 92 anni, età della sua morte.
Ci vollero giusto gli antichi Greci per prenderla con più filosofia: Socrate affermava che “l’erba non può crescere sulle vie molto battute”, alludendo alla sua evidente calvizie figlia dell’intensa attività intellettiva, mentre Aristotele fu il primo a collegare la caduta dei capelli con la fertilità maschile, oggi diremmo con un alto livello di testosterone, nobilitando definitivamente il cranio lucido.
Sebbene la loro importanza biologica sia nulla, è evidente che le chiome rivestono un’importanza sociale rilevantissima dando un deciso contributo all’instaurarsi o meno di relazioni e sostenendo la nostra autostima: il modo in cui curiamo e acconciamo i nostri capelli fornisce agli altri indizi sulla nostra condizione fisica, psichica, sociale e professionale, per questo il legame fra capelli e autostima è talmente stretto da provocare, in alcuni individui, una forte alterazione dell’immagine di sé nel momento in cui i capelli si diradano.
Insomma siamo tutti dei potenziali Sansone destinati a perdere la forza quando le nostre chiome fluenti ci abbandonano o danno segni di cedimento imbiancandosi. Eppure quando ripenso a certe vecchine, anch’esse oggi introvabili, con quei bellissimi capelli candidi, la pelle meravigliosamente rugosa, gli occhi brillanti e la dolcezza di chi accetta l’imperfezione umana, ancora mi commuovo e non posso che desiderare di vedere nel mio specchio quella vecchina, fra qualche anno e non una donna tinta, finta … e senza grinta!
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