La forza dei condizionamenti culturali balza in primo piano quando, a 110 anni dalla tragedia che diede origine alla Festa della Donna, constatiamo che l’8 marzo è diventato per alcuni un’occasione per dare addosso proprio alle donne, a causa dei presunti privilegi di “protezione sociale” di cui godrebbero.
Mentre i festeggiamenti si riducono ad allegri cortei e spogliarelli maschili, nel mondo reale ragazzi e ragazze sembrano più che mai smarriti di fronte alla semplice idea di “rispetto dell’altro”, schiacciati tra femminicidi, bullismo e maschilismo strisciante. Si ribellano alle esortazioni alla civiltà (che etichettano come stupido “buonismo”) e restano affascinati da chi parla con una violenza semplificante, priva di complessità e sfumature. Come accade ormai ogni 27 gennaio con il giorno della Memoria, anche l’8 marzo vede pian piano aumentar di volume la voce di chi contrappone alla necessità di tutela di un gruppo sociale, la necessità di tutela di una serie di altre categorie deboli, come se l’attenzione ad un fenomeno potesse escludere la preoccupazione su altri analoghi.
Semplificazioni? Sì, ma cosa c’è sotto?
Molte giovanissime, cresciute in una società in cui i diritti delle donne sono strenuamente difesi a parole e disattesi nei fatti, sono spesso insofferenti al linguaggio retorico che fino a 30 anni fa manteneva ancora intatta la sua forza trainante. Rabbrividiscono di fronte al termine “femminismo” identificandolo, purtroppo, solo come una guerra tra i sessi. Molto è stato fatto perché tutto ciò accadesse, e colpevolizzare le nuove generazioni non sarebbe ne’ giusto ne’ utile alla tutela delle donne, o di chiunque altro.
I giovani percepiscono bene la schiavitù verso la quale stiamo tutti scivolando nel mondo del lavoro, quella stessa schiavitù che ha dato origine alla Giornata internazionale della Donna. Sentono (senza immaginare la fonte storica di questa idea) che il mondo non può essere diviso tra maschi e femmine, tra nord e sud, tra italiani e stranieri, ma solo tra oppressi e oppressori. Perché questa ingiustizia si sente fortemente quando si è giovani. Però la voce del potere (non sempre politico, anche economico) opera in modo costante per orientare la loro capacità di comprendere chi è il vero oppresso. Ed è qui che sarebbe il caso di fare maggiore chiarezza. Anche nella mente di molti adulti.
Regalare mimosa alle donne l’8 marzo è un riconoscimento al valore delle donne in quanto femmine, ma non possiamo ignorare che agli occhi di molte donne contemporanee ormai questo appare paradossalmente come uno dei gesti più maschilisti. Evoca un’ammuffita galanteria ottocentesca; evoca un mondo in cui, comunque, il riconoscimento della donna doveva venire dall’uomo.
Se si scava a fondo nella questione della parità dei diritti delle donne (diritti spesso solo enunciati per legge e disattesi ad ogni colloquio di lavoro, ad ogni passaggio pubblicitario) troviamo dubbi, perplessità, rabbia e confusione che non vanno colpevolizzati. Vanno accolti, ascoltati e compresi a fondo.
Forse le donne oggi credono che essere femministe significhi difendere solo se stesse.
Sono cresciute in un mondo più libero, hanno visto che di oppressi, oltre a loro, ce ne sono tanti altri e detestano assumere il ruolo di vittime.
Vedono il confine tra i sessi diventare più fluido.
Non accettano più il linguaggio politico che ha fatto la storia di queste battaglie.
Dovranno crearne un altro e questa è la loro responsabilità.
Il futuro è quindi nelle mani delle giovani donne di ogni nazionalità e cultura che, forse, troveranno modi nuovi per mantenere alta la guardia sui diritti femminili e sull’inviolabilità del loro corpo, perché oggi più che mai diventa urgente capire che nella storia nessuna conquista è per sempre.
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